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martedì 26 novembre 2013

"El Gusto". Viaggio nella memoria musicale di Algeri

Il documentario racconta la storia di un'orchestra e di una città, tra vicoli della casbah e melodie chaabi. Il "Buena vista social club algerino".

Il paragone, proposto dalla critica fin dalle prime proiezioni del film (2012), non è un azzardo.

Come Wim Wenders sulle tracce delle vecchie glorie della musica cubana, anche Safinez Bousbia è partita alla ricerca dei sopravvissuti dell'età d'oro della musica chaabi, aiutandoli a ritrovarsi e finendo per spingerli a riprendere servizio.

Come in Buena vista social club l'idea di una reunion live non è il punto di arrivo del progetto, bensì la scintilla per un nuovo inizio, che ha riportato indietro di mezzo secolo tanto i protagonisti dell'orchestra El Gusto (espressione utilizzata nel dialetto algerino per indicare un momento di piacere e buonumore) quanto gli spettatori della pellicola, a metà strada tra il documentario storico e musicale.

"Algeri, la città dove sono nata. E' qui che il caso, un giorno, mi ha fatto conoscere un gruppo di vecchi musicisti. Un incontro che avrebbe cambiato la loro vita e la mia, per sempre..", racconta nelle prime battute del film la giovane regista, cresciuta in Europa, dove ha studiato tecniche ed arti visive.

Oltrepassando la soglia di un anonimo mastro specchiaio della casbah, nel 2004, Safinez Bousbia è ben lontana dall'immaginare in quale genere avventura sta per imbarcarsi. La bottega appartiene all'artigiano Mohamed Ferkioui, un tempo talentuoso fisarmonicista e direttore d'orchestra, diplomato al conservatorio di Algeri.

"Ferkioui ha passato ore a narrare ricordi lontani ma ancora vivi, mostrandomi vecchie locandine di concerti - spiega la regista -. Alla fine mi ha confidato, a malincuore, di aver perso di vista ormai da decenni tutti gli amici e i colleghi con cui aveva imparato a suonare. Dove erano finiti? Sparpagliati sulle due sponde del Mediterraneo. Così ho deciso di partire alla loro ricerca. L'idea originaria era semplicemente di rimetterli in contatto con l'artigiano, non di fare un film. Ma dopo averli incontrati, conosciuti e ascoltati ho capito che c'era una bella storia da raccontare".

E' la storia di una città e dei suoi artisti dimenticati.

Algerini e pieds-noirs, musulmani ed ebrei, separati da una guerra cinquant'anni fa, ma ancora uniti da una passione comune: lo chaabi. Dal gusto, il piacere di suonare assieme questa musica "popolare" (traduzione letterale del termine) - una sintesi di ritmi berberi locali, canti religiosi e melodie arabo-giudeo-andaluse - nata nei bassifondi, nelle taverne, nei bar e perfino nei bordelli alla fine del periodo coloniale, e rapidamente affermatasi come uno dei simboli culturali della città.

"L'anima di Algeri è la musica chaabi e soprattutto la casbah", la culla di questo genere creato negli anni '20 del secolo scorso dal maestro El Hadj M'hamed El Anka, alla cui memoria è dedicato il documentario. A parlare è Ahmed Bernaoui, una delle voci e delle chitarre dell'orchestra.

"Lo chaabi è una musica popolare nella sua propria essenza - gli fa eco il collega Mustapha Tahmi. E' la musica della strada, dei bambini e degli adulti. Se svuotassimo le case della casbah della calce di cui sono fatte, ogni granello potrebbe recitare un poema di El Anka, talmente questo patrimonio è incrostato nel sangue".

A conferma del legame inscindibile tra il genere e la cittadella che sorveglia la baia, dall'alto del suo promontorio, le note di "El Djazair habibti" intonate dal mandolino di Chauki El Yamine:

"Algeri amore mio

città di fratelli e amici

vivrò tutta la vita al tuo fianco

e non ti lascerò mai

La luce si alzerà

e saremo soddisfatti e felici

Amore mio

sei la più bella tra le città

circondata dal mare

come una stella dalla mezzaluna

mi rendi fiero di fronte ai nemici […]"

El Gusto è un ritorno alle origini di un intero paese, attraverso la cultura cosmopolita che l'ha costruito. E' un miscuglio di sapori tra oriente e occidente, un mosaico di colori e di identità che hanno fatto di Algeri un contesto singolare di espressione artistica. Ed anche un esempio di solidarietà e convivenza, come dimostra il caso del mausoleo Sidi Abderrahmane - luogo di culto nel cuore della casbah condiviso da ebrei, cristiani e musulmani -, almeno fino allo scoppio della guerra di liberazione.

E' a questo punto che i ricordi "dei tempi gloriosi" si interrompono. La "battaglia di Algeri" impone misure drastiche. Molti dei locali dove gli artisti erano soliti esibirsi chiudono. Le terrazze e i cortili della cittadella si spopolano. I morti e la ferocia degli scontri cambiano lo stato d'animo e le priorità dei musicisti. Non è più il momento di far festa.

Così, le strade dei principali interpreti dello chaabi si dividono: i francesi d'Algeria iniziano ad abbandonare la città, direzione Marsiglia e Parigi, seguiti dai membri della comunità ebraica (e di altre comunità, spagnole e italiane, presenti nella città vecchia), spinti a partire dal deteriorarsi della situazione e dallo zelo delle forze coloniali. I musicisti algerini, invece, si uniscono alla lotta dell'FLN.

La proclamazione dell'indipendenza, nella memoria di chi è rimasto, è una parentesi raggiante a cui la musica non può non dare il suo contributo. E' ancora una volta El Anka ad immortalare il momento con la canzone "El Hamdulillah", "scritta prima della fine della guerra, ma eseguita per la prima volta in pubblico il 5 luglio del 1962", riferisce il figlio del grande maestro, oggi membro dell'avventura El Gusto.

"Grazie a Dio non c'è più colonialismo nel mio paese

grazie a Dio per questo momento felice

ne abbiamo abbastanza di questa ingiustizia

speriamo in un giorno nuovo

Gli uomini hanno dato la vita

nei nostri deserti e nelle nostre montagne

Lunga vita all'Algeria libera

e lunga vita alla sua gioventù

Lunga vita all'Algeria

a tutti i suoi uomini e a tutte le sue donne […]"

Gli anni che seguono i festeggiamenti per la liberazione, però, non riescono a restituire l'atmosfera e il prestigio del passato. Lo chaabi, con la sua capacità di "far dimenticare la miseria, la fame e la sete", ha ormai pieno riconoscimento e tuttavia i vecchi artisti - salvo poche eccezioni - vengono progressivamente marginalizzati dalla scena.

In molti ripongono lo strumento tra le pieghe dell'oblio. Alcuni continuano ad esibirsi ma la musica, in un paese scosso da tensioni politiche e da una carente redistribuzione delle risorse economiche, è lontana dal poter diventare una vera professione. Anche la casbah, come gran parte della popolazione, sembra essere abbandonata al suo destino.

"Algeri, la capitale

il tuo valore è immenso

il tuo amore resterà nel mio cuore per l'eternità

Uomini senza valore ti hanno rovinato

Che Dio li punisca

Hanno sporcato questa città santa

la città dei martiri e dei santi

Voi che mi ascoltate, ditemi:

dov'è finito l'odore della bella Algeri?

Voi che ci siete, ditemi:

dove sono finiti i figli della capitale? […]"

Sono versi carichi di malinconia quelli cantati a fine anni '80 da Abdelmajid Meskoud nel poema "El Assima", rievocati dallo stesso autore nel corso del documentario. Ma non è la disillusione a dominare il fondo dell'opera, bensì la speranza, come testimoniano gli sguardi lucidi e l'emozione dei protagonisti.

Lo scorrere della pellicola dà l'impressione di una finestra che si spalanca su una stanza rimasta chiusa troppo a lungo. Una lezione di storia impartita dalle voci e dalla musica di trovatori sepolti nel fondo delle loro botteghe o nella lontananza della diaspora.

Uomini il cui statuto d'artista non viene riconosciuto dalle autorità. Sono queste persone - considerate quasi dei paria, seppur necessarie a canalizzare l'emozione di un intero popolo - a farci scoprire un paese diverso, inimmaginato, dove il dolore non è mai riuscito a mettere a tacere l'anelito critico e allo stesso tempo gioioso dei fondatori dello chaabi.

El Gusto offre loro l'occasione di riemergere, di ricominciare un cammino interrotto cinquant'anni prima, e concede al pubblico la possibilità di conoscere una serie di figure straordinarie, ricordando che l'Algeria non è solo una terra di (vecchi e nuovi) massacri o petrolio.

Il film si chiude sul ricongiungimento dei musicisti e sulle prime esibizioni del gruppo. "Un ricongiungimento d'amore e di amicizia sincera", come intona l'orchestra nel brano omonimo ("El Gusto") che accompagna le immagini del documentario:

"Gioisci mio caro

sulla nave di El Gusto

tu sarai sempre felice

Tutti sono riuniti

con le loro arti e le loro metafore

la musica

le sagge parole e i canti

Tutti coloro che amiamo

con le loro differenze

sono saliti a bordo […]"

Dopo il successo della reunion live di Marsiglia (2007) - 3 ore e mezza di performance - la nave di El Gusto non si è più fermata. Alle tournée internazionali è seguita l'incisione di un disco - in parte riproposto dalla colonna sonora del film - il quale, oltre alle canzoni già menzionate, contiene arrangiamenti inediti e reinterpretazioni di alcuni brani molto conosciuti, anche al di fuori dei confini algerini. Ad esempio "Ya Araih Ouine Amsafer", canto popolare reso celebre dal rocker Rachid Taha negli anni '90, o ancora "Chihlet L'Ayani", una sorta di "Quizas" in versione locale.

Si tratta di un album carico di sentimento. Un inno al rispetto e alla tolleranza, riassunto in modo efficace dalle parole di "Je suis pied-noir". A lasciarsi trasportare dai cori scanditi al ritmo delle darbuqa e del banjo, o dai virtuosismi del pianoforte e dei violini, diventa facile convincersi che la musica può essere ancora uno strumento di libertà.

E pensare che tutto era cominciato con un banale incontro nel negozio di un mastro specchiaio…

Per vedere il film completo, in versione originale, clicca qui.

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