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martedì 19 febbraio 2013

Le 'ambiguità' della transizione tunisina. Intervista a Eric Gobe

"Il 'peccato originale' della Troika è non aver delimitato in maniera precisa le competenze e la durata della Costituente e del governo provvisorio. La gestione del potere opaca e verticistica, che poco si addice ad una democrazia in gestazione, non ha fatto che aumentare sfiducia, sospetti e accuse nei suoi confronti".



A due settimane dall'omicidio dell'oppositore Chokri Belaid il futuro della transizione tunisina è sempre più incerto. L'iniziativa del premier Hamadi Jebali, volta alla formazione di un governo di 'tecnici' in carica fino alla tenuta delle prossime elezioni, non ha ottenuto il sostegno sperato e il primo ministro dovrebbe rimettere oggi il suo mandato nelle mani del Presidente della repubblica, intenzionato tuttavia a proseguire le concertazioni.

Il contesto, intanto, è quanto mai delicato. La polarizzazione tra la coalizione di governo (la Troika), non intenzionata a lasciare le posizioni di comando seppur in calo di consensi e sulla via dello sfaldamento, e le opposizioni, pronte a cavalcare la crisi per estromettere i rappresentanti eletti nell'ottobre 2011, sembra difficile da ricucire per poter giungere ad un'intesa condivisa.

L'instabilità politica del paese ha subito una netta accelerazione in seguito all'uccisione di Belaid e al ritorno della violenza, "ma affonda le sue radici almeno un anno e mezzo prima, nel momento della creazione dell'Assemblea nazionale costituente (Anc)". Ne abbiamo discusso con il professor Eric Gobe, da anni studioso delle dinamiche politiche e sociali tunisine e caporedattore della rivista L'Année du Maghreb fino al dicembre scorso.



Poco più di un anno fa, stilando un bilancio della rivoluzione in occasione del primo anniversario della fuga di Ben Ali, lei ha affermato che la Tunisia "non sarà mai più come prima". E' sempre dello stesso parere?

Niente è più come prima, lo ribadisco. La Tunisia non può più tornare come era prima del 14 gennaio 2011, ma questo non significa che alla fine del periodo di transizione il paese disporrà automaticamente di un ordinamento democratico. Il timore che si producano dei colpi di mano, di qualsiasi colore o provenienza, c'è. Ma l'esperienza accumulata, la memoria politica - della dittatura prima e della sollevazione popolare poi - la sperimentazione dei primi strumenti democratici - con tutti i limiti del caso - l'esercizio delle libertà conquistate - pur non ancora consolidate - costituiscono un'eredità indelebile con cui da ora si dovrà fare i conti. Qualunque sia il tipo di governo che si instaurerà dopo questa fase di profonda incertezza.


L'instabilità politica, per quanto inevitabile in una fase di transizione, ha subito una netta accelerazione dopo l'omicidio di Chokri Belaid. Come si è arrivati a questo punto?

E' necessario ripercorrere le ultime tappe, partendo dalla creazione dell'Assemblea nazionale costituente, a cui è stato assegnato un mandato ambiguo. Da una parte ha il compito di redigere la nuova costituzione e dall'altra ha subito acquisito lo status di assemblea legislativa, senza che gli stessi costituenti si preoccupassero di limitarne la durata in modo chiaro. Tutto questo, mentre il decreto di convocazione delle elezioni (23 ottobre 2011) precisava che l'Anc sarebbe restata in carica un solo anno, tempo ritenuto sufficiente per la stesura della nuova carta.

Se la Troika (Ennahda, Cpr, Ettakatol) ha approfittato di questa ambiguità per spartirsi cariche e potere, le opposizioni non hanno perso tempo a mettere in discussione, soprattutto negli ultimi mesi, la legittimità delle istituzioni ritenute "transitorie". Le problematicità del rilancio economico e la presenza di forti e ripetuti movimenti di contestazione sociale ha poi aumentato il clima di instabilità.

E' così che il governo, in difficoltà nella gestione del paese, ha cercato di strumentalizzare certe realtà più o meno marginali - come le Leghe per la protezione della rivoluzione (Lpr) o i gruppi detti salafiti - per regolare conti con le opposizioni e i dissensi più fastidiosi, anche in modo aggressivo e violento.

In questo senso, l'omicidio di Chokri Belaid non è il primo campanello d'allarme (scontri tra Lpr e membri di Nidaa Tounes avevano portato alla morte di un rappresentante del partito di opposizione a Tataouine nel novembre scorso, nda) anche se certamente è il primo episodio a toccare una personalità di statura nazionale. Non tanto per il peso politico del Fronte popolare, quanto piuttosto per il carattere emblematico della sua figura, un avvocato tra i più attivi durante le proteste che portarono alla caduta di Ben Ali.


La responsabilità dell'omicidio Belaid è quindi da imputare a Ennahda?

La Troika e soprattutto Ennahda, che controlla quasi tutti i ministeri di sovranità, sono i maggiori responsabili della situazione. Molti osservatori concordano nel sostenere che le Lpr annoverano tra le loro fila simpatizzanti dell'attuale governo, ma nella maggior parte dei casi le leghe sono formate da uomini di mano e non hanno un'ideologia da difendere. Ricordano sempre più da vicino la baltajia egiziana all'opera durante la protesta di piazza Tahrir. Più che una milizia parallela, le leghe sembrano ormai elettroni liberi in grado di sfuggire al controllo di chi vorrebbe servirsene (le recenti dimissioni dei vertici delle Lpr potrebbero confermare questa affermazione, nda).

Perché le autorità non hanno mai accettato la loro dissoluzione? Perché hanno permesso che all'interno di alcune moschee o su certe stazioni radiofoniche continuassero a circolare appelli alla violenza senza che gli autori venissero perseguiti per i loro propositi? In questo senso parlo di responsabilità, non di mandanti o esecutori.

Tra l'altro, la storia insegna che il ricorso alle milizie non è un fenomeno nuovo in Tunisia. Se ne servì il Neodestour di Bourghiba per "raddrizzare" i dissidenti all'interno del movimento nazionale prima e dopo l'indipendenza, e Ben Ali nei primi anni dopo il colpo di Stato.


Oltre alle Lpr, lei ha parlato di strumentalizzazione dei 'salafiti'. Qual è l'incidenza di questo fenomeno?

Per prima cosa vorrei precisare che le leghe sono una cosa e i salafiti, corrente politico-religiosa, un'altra. Sono due realtà distinte, fenomeni di differente natura, anche se si possono avere in certe situazioni delle sovrapposizioni.

Una parte di Ennahda non nasconde le sue simpatie nei confronti di questi gruppi e le dichiarazioni di alcuni suoi leader detti 'radicali' mostrano una sorta di compiacenza. In effetti, nonostante gli appelli alla violenza di alcuni shaykh e le azioni di forza condotte all'interno delle università, il governo ha iniziato a prendere misure repressive contro certi suoi esponenti solo dopo l'attacco all'ambasciata americana di Tunisi del settembre scorso.

La presenza di un'entità salafita si presta facilmente a diversi tipi di strumentalizzazione. Da parte di Ennahda, per far pressione sugli alleati di governo, da parte di alcune sue correnti per modificare i rapporti di forza all'interno del partito, e ovviamente da parte dei detrattori della formazione islamica, pronti ad agitare in ogni momento lo spauracchio della teocrazia.

Ora, esprimere una valutazione sull'incidenza che i gruppi e l'ideologia salafita hanno nella Tunisia post 14 gennaio è difficile. Dal punto di vista quantitativo si tratta di un fenomeno di proporzioni ridotte, ma sul piano qualitativo siamo di fronte ad una realtà estremamente attiva. E una minoranza attiva è molto più visibile di una maggioranza silenziosa. In virtù soprattutto della sovraesposizione mediatica, per nulla casuale, di cui gode.


La radicalizzazione politica a cui stiamo assistendo riflette una reale polarizzazione sociale tra "pro" e "anti" islamisti?

A priori no, come testimoniato dai risultati alle elezioni dell'Anc dove i partiti che hanno fatto campagna elettorale agitando la minaccia islamista sono stati duramente sconfitti. Ma nel corso dell'ultimo anno - e in modo ancor più evidente nel corso delle ultime settimane - il susseguirsi di accuse e linciaggi, il ricorso alla violenza fisica e verbale, alle dimostrazioni di forza, hanno rinsaldato una polarizzazione politica che a lungo andare potrebbe generare una frattura ancor più profonda a livello sociale.


Quale responsabilità hanno le opposizioni nel deterioramento del clima politico e dell'intero processo di transizione?

Una responsabilità condivisa con la maggioranza, per quel che concerne la crescita della radicalizzazione. Tuttavia, ancora una volta, la matrice del problema si trova nella doppia natura dell'Anc e nell'ambiguità delle istituzioni provvisorie.

Da un punto di vista prettamente politico, infatti, Nidaa Tounes e il Fronte popolare sono le opposizioni ufficiali e si comportano di conseguenza. Contrastando l'azione di governo e cercando di aumentare il proprio seguito, come Ennahda ha cercato di consolidare la sua posizioni procedendo a nomine nei posti chiave delle amministrazioni. All'interno di un'assemblea legislativa, è normale che l'opposizione faccia il suo lavoro di critica al potere, anche in modo intransigente se necessario.

Ma l'Anc è, o meglio avrebbe dovuto essere, prima di tutto una costituente. Un contesto dove le rivalità e gli scontri, gli interessi di parte, sarebbero dovuti passare in secondo piano rispetto alla definizione di un consenso, anche minimo, sulla forma e i contenuti da dare al nuovo Stato. Era questa la priorità, assieme alle riforme e agli investimenti in campo economico, che è stata persa di vista in un processo già in sé delicato come la transizione.


Da dove vengono e cosa rappresentano queste due opposizioni?

Nidaa Tounes, guidata da Beji Caid Essebsi (burghibista e benalista della prima ora, poi estromesso da incarichi di governo, nda) è una coalizione di partiti eterogenei - che vanno da posizioni liberal-conservatrici ai social-democratici dell'opposizione ufficiale al vecchio regime (ex-PDP, ex-Ettajdid) - tenuti assieme dal comune richiamo alla matrice desturiana e dall'avversione nei confronti dell'islam politico.

Qualunque sia il giudizio morale sul passato di certi suoi esponenti, Nidaa rappresenta attualmente una parte considerevole della società tunisina. Molto meno significativo è invece il peso del Fronte popolare, espressione della sinistra radicale già attiva e fortemente repressa sotto il vecchio regime (ex-PCOT). Il Fronte - nonostante un certo apparentamento con il sindacato - ha un ancoraggio sociale limitato, inversamente proporzionale all'attivismo dei suoi leader. Da non confondere infatti è il ruolo che certi suoi rappresentanti possono ricoprire al momento delle mobilitazioni (come a Gafsa o a Siliana) e un'eventuale risposta elettorale della popolazione.


Se da un lato si continua ad agitare lo 'spauracchio islamista', dall'altro si paventa a gran voce un ritorno dell'RCD (il partito dell'ex presidente Ben Ali, nda) sotto mentite spoglie. Come considera la retorica veicolata dalla Troika all'indirizzo di Nidaa Tounes?

E' un'argomentazione piuttosto banale. Il ricorso a uomini del vecchio regime è una costante che si riproduce in tutte le transizioni, dove è impossibile fare tabula rasa, e non sorprende che qualche vecchio 'fantino' tenti, più o meno discretamente, di rimettersi in sella. Tanto più che gli elementi attivi sotto il precedente sistema hanno ancora le loro reti e le loro influenze, un capitale politico che fa gola sia a chi si trova al governo sia a chi sta all'opposizione.

Quando dico che la Tunisia non potrà più essere come prima mi riferisco anche a questo. Nel caso in cui gli esponenti 'del vecchio regime' dovessero vincere le prossime elezioni, non arriverebbero mai alle percentuali bulgare dell'epoca di Ben Ali. Si troverebbero di fronte alla necessità di negoziare alleanze, entrerebbero in logiche di confronto prettamente politiche, un terreno su cui era impossibile avventurarsi prima del 14 gennaio.


Il 'riciclaggio' a cui si è assistito fin dai primi governi provvisori post Ben Ali, non è una conseguenza della scarsa volontà ad instaurare un processo di giustizia transazionale?

Come dicevamo, le esitazioni sono spiegabili da un punto di vista politico - evitare di estromettere chi può ancora servire - oltre che da riflessioni di carattere etico: fino a dove è possibile spingersi per riparare e riconciliare, e dove si otterrebbe l'effetto opposto? Siamo di fronte ad un nuovo terreno scivoloso che potrebbe aumentare la frattura - e di conseguenza lo scontro - politico e sociale.

Intanto una sorta di giustizia di transizione 'indiretta', non dichiarata, è comunque in atto. Agli ex dirigenti dell'RCD e a coloro che avevano ricoperto incarichi ministeriali sotto Ben Ali era stata vietata la candidatura alle elezioni del 2011 (sebbene queste liste non siano mai state rese pubbliche). E' stata votata la legge sull'indennizzo delle vittime del vecchio regime, è stata creata una 'Commissione martiri' all'interno dell'Anc e i tribunali militari stanno giudicando alcuni quadri del ministero dell'Interno ritenuti responsabili delle repressioni passate.

Resta da vedere quanto le rivendicazioni della società civile, che esprime un rifiuto netto dell'impunità e chiede un maggior investimento delle autorità su questo punto, riusciranno a prevalere sull'esigenza di stabilità, soprattutto nella situazione attuale.


Come spiega il ricorso ai tribunali militari, criticato sia all'interno del paese che dalle ong internazionali per i diritti umani?

E' una dimostrazione che l'esercito ha preso potere e agisce in autonomia rispetto alla politica, altro segno di discontinuità con il passato. Ciò non significa che il suo giudizio sui quadri del ministero responsabili di violazioni sarà più giusto o equo di quello che avrebbero emesso i tribunali civili. E' tutto da vedere. Significa invece che i militari, dopo i giorni gloriosi del gennaio 2011 quando il generale Rachid Ammar fu accolto da liberatore a Tunisi, non sono 'rientrati nelle caserme' lasciandosi estromettere come al tempo di Ben Ali. Si sono allontananti dai riflettori, ma intendono controllare da vicino la fase transitoria.

Altri segnali rivelatori di questo nuovo paradigma sono la presenza del generale Ammar nel 'consiglio dei saggi' su cui il premier Jebali si è appoggiato per sostenere la formazione di un governo di unità nazionale e la condanna dell'ex portavoce del presidente Marzouki - Ayoub Massoudi - per "attacco alla dignità dell'esercito". Un'altra variabile, insomma, che complica l'analisi e la comprensione della situazione attuale.


L'omicidio di Chokri Belaid, intanto, ha sancito il fallimento della Troika che sembra destinata all'implosione..

Dopo un anno di attese, ritardi e temporeggiamenti, la Troika è ormai costretta a confrontarsi con la realtà. Il 'peccato originale', lo sottolineo ancora una volta, è quello di non aver delimitato in maniera precisa le competenze dell'Anc e la sua durata, di non aver stabilito meccanismi chiari di funzionamento e un tempo massimo entro cui sottoporre la costituzione all'approvazione, del popolo o degli eletti.

Tutto questo avrebbe contribuito a ridurre sfiducia, sospetti e accuse nei suoi confronti, alimentanti fra l'altro da una gestione del potere opaca e verticistica che poco si addice ad una democrazia in gestazione. Durante l'anno e mezzo in cui ha governato si è avuta l'impressione - ed è ormai più che un'impressione - che i ritardi nella realizzazione degli 'obiettivi della rivoluzione' siano stati funzionali al consolidamento del potere in atto, un potere all'origine 'transitorio'. Del resto, non molto tempo fa, un deputato del Cpr (partito del Presidente Marzouki, nda) si era lasciato scappare una piccola confessione in proposito: "quando si è assaggiata una fetta della torta, il desiderio è quello di mangiarsela tutta".


Quali sono, a questo punto, le prospettive della transizione tunisina?

C'è un concreto rischio di sfaldamento non solo per la Troika, ma anche per i singoli partiti che la compongono, viste le profonde divergenze interne espresse in questi ultimi giorni. Le defezioni tra le fila del Cpr e di Ettakatol si moltiplicano. All'interno di Ennahda le correnti sembrano aver preso il sopravvento, del resto Hamadi Jebali - politico per definizione - non ha molto a che vedere con Saddoq Chourou, che farcisce i suoi interventi all'Anc di riferimenti coranici sulla conformità o meno di certi provvedimenti alla morale religiosa.

L'errore più grande, a questo punto, sarebbe legare la legittimità politica del governo ancora in carica a quella elettorale dell'assemblea. Non è il momento di distruggere, ma di ridefinire compiti e priorità, dell'Anc e del nuovo esecutivo che uscirà da questa fase turbolenta. E' necessario che l'assemblea si concentri esclusivamente sulla scrittura della costituzione e che un governo di unità nazionale, meglio ancora di tecnici, provveda alle riforme "di salute pubblica" - ad esempio la creazione di autorità indipendenti per la regolazione dei media e della giustizia - rimaste bloccate dagli interessi di parte. Tra le priorità del nuovo esecutivo dovrà rientrare anche l'allestimento di un organismo indipendente per le future elezioni - sul modello dell'ISIE - in grado di assicurare la neutralità degli apparati decisionali, su cui già pesava l'ombra del sospetto.

L'iniziativa di Jebali sembrava essere una soluzione, ma non ha raccolto i consensi necessari. Aspettiamo di vedere se il tentativo del presidente Marzouki avrà miglior fortuna. Di certo, un eventuale esito negativo delle concertazioni in corso non farebbe che gettare nuova nebbia nel processo di transizione..


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