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domenica 6 gennaio 2013

Djamila Amzal, il cinema algerino tra identità amazigh e diritti delle donne

Non è facile essere donna, attrice e berbera nell'Algeria di oggi. Ce lo racconta Djamila Amzal, artista militante da qualche anno stabilitasi in Italia, in un'intervista che ripercorre alcune fasi della sua carriera, consacrata alla lotta per la parità di genere e la difesa dei diritti linguistici e culturali delle popolazioni amazigh.


"Dovevo essere ingegnere, questo almeno prevedeva il mio percorso di studi". Ma alla metà degli novanta la vita di Djamila prende una direzione inattesa, che la porta "alla scoperta di un mondo mai sognato", il grande schermo. Diventa così l'interprete principale nei primi lungometraggi del cinema algerino in lingua berbera, La Colline oubliée di Abderrahmane Bouguermouth (1994) e La Montagne de Baya di Azzedine Meddour (1997). In seguito partecipa alla riprese di un altro capolavoro cabilo, Si Mohand u M'hand, l'insoumis (2004) di Liazid Khodja e Rachid Benallal. Durante le violenze degli anni novanta lascia temporaneamente il paese, stabilendosi prima in Francia e poi in Italia, ma conserva un ricordo vivo e appassionato della sua terra natale. "La Cabilia è prima di tutto il luogo della mia infanzia, le montagne e i bei fiumi che scorrono vicino al villaggio di Tiferdoud, e poi il contesto della maturazione, tra amici e compagni di studi a Tizi Ouzou".

Djamila Amzal è senza dubbio una pioniera, che ha fatto la storia del cinema berbero, ma non solo. Nel 2004 infatti ha realizzato - sceneggiatura, regia e interpretazione - un cortometraggio per denunciare lo status di inferiorità e subordinazione a cui sono sottoposte le donne algerine in virtù delle diposizioni contenute nel codice di famiglia (Il tutore della signore ministro, disponibile anche con sottotitoli in lingua italiana). "La sua situazione descritta dal film è emblematica delle contraddizioni che attraversano il paese: da un lato, le donne possono aspirare teoricamente a qualunque carica, anche ai vertici dello Stato; dall'altra, però, quando si tratta del ruolo all'interno della famiglia, devono fare i conti con una legislazione restrittiva. Per me è stato un modo, in occasione dei venti anni dalla sua promulgazione, di rilanciare la lotta per l'abrogazione di questo strumento giuridico discriminatorio".


Djamila Amzal, ci racconti un po' il suo percorso. Come è arrivata ad essere prima attrice e poi regista?

Il mio è un percorso poco "professionale". Ero - e lo sono ancora - un'agguerrita militante cabila per il riconoscimento della lingua e della cultura amazigh (berbera), una battaglia che ha coinciso con la nascita del cinema berbero in Algeria. Ho avuto la fortuna, inaspettata, di conoscere le persone giuste che mi hanno proposto di contribuire alla lotta per i diritti dei cabili attraverso questo potente mezzo di espressione, quale è appunto il cinema.

Da qui nasce la mia prima partecipazione ad un lungometraggio, tratto dal romanzo La collina dimenticata dello scrittore e linguista Mouloud Mammeri (La colline oubliée, del 1952, è il primo romanzo di una trilogia - con Le Sommeil du juste, 1955 e La Traversée, 1982 - ambientata nel villaggio cabilo di Tasga tra la fine della prima e l'inizio della seconda guerra mondiale, nda). Mammeri era per tutti noi il simbolo dell'emancipazione identitaria e della lotta contro la repressione.

Ho avuto il ruolo da protagonista, il personaggio di Azzi, pur non avendo ancora alcuna esperienza in questo campo. Lavorare a La collina dimenticata ha fatto nascere in me la voglia di andare alla scoperta di un mondo mai sognato fino ad allora. All'università di Tizi Ouzou avevo studiato ingegneria.


Cosa ricorda di quell'esperienza?

Bisogna dire innanzi tutto che La collina dimenticata (1994) è il primo film in lingua berbera nella storia del cinema algerino. Un grande evento per le popolazioni berbere in generale e per i cabili in particolare.

Fin dall'indipendenza, nonostante la politica di arabizzazione intensiva della società, l'identità amazigh non ha mai rinunciato ad esprimersi attraverso i suoi poeti, i suoi musicisti e i suoi letterati in genere. Soprattutto la canzone cabila, già nei primi anni dopo la guerra di liberazione, ha avuto un'eco straordinaria ed è servita da supporto indispensabile per l'espressione e la diffusione delle nostre rivendicazioni socio-culturali. Le cassette circolavano velocemente di famiglia in famiglia, di villaggio in villaggio, e le donne erano parte integrante di questo fermento artistico. Ricordo, per citarne solo alcune, Hnifa, Cherifa, Bahia Fareh e più tardi Nouara, Djamila, Anissa Djurdura, Malika Domrane…

Nel caso del cinema, invece, si è dovuto attendere oltre trent'anni prima di ottenere qualche risultato concreto. All'epoca di Boumedienne, e poi di Chadli Bendjedid, era fuori discussione che la produzione algerina, totalmente nazionalizzata quindi arabizzata, autorizzasse un prodotto "berbero", tanto nella forma espressiva quanto nella sostanza dell'opera. Solo nel momento in cui il sistema ha iniziato ad incrinarsi, all'inizio degli anni '90, i registi amazigh sono riusciti a conquistare un loro spazio nel grande schermo.

La collina dimenticata, in questo senso, rappresenta un passaggio chiave che ricordo con profonda emozione. Il film ha contribuito alla lotta per il diritto all'identità linguistica e culturale dei berberi, e più in generale per quel che riguarda il rispetto dei diritti umani. L'obiettivo, mio e dell'intera troupe, non era solo professionale come ricordavo poco fa.

Ne è una prova l'ostinazione dello stesso regista, Abderrahmane Bouguermouh, che ha voluto portare a buon fine il progetto nonostante tutti gli ostacoli incontrati durante i lavori (scarsi finanziamenti, le violenze della guerra civile, minacce di morte..). L'idea di portare sul grande schermo questo splendido romanzo era nata addirittura negli anni sessanta, dopo l'incontro tra Mammeri e Bouguermouh. Ma la sceneggiatura, depositata nel 1968 presso l'ONC (l'Ufficio nazionale del cinema), era stata fino a quel momento rifiutata dalla commissione interna perché scritta in cabilo.


Essere attrice e donna nell'Algeria degli anni '90 non deve essere stato facile.  Cosa ha significato per lei? Ha vissuto momenti di tensione, ha subito minacce o è stata in qualche modo ostacolata nella sua attività?

Niente è stato facile per nessuno in quegli "anni neri" che hanno messo l'intera Algeria in ginocchio. Sono stati dieci anni infernali ed ostili, che hanno segnato profondamente tutte le forme di vita presenti all'interno del paese e non solo.

Di certo le tensioni che quotidianamente pesavano su tutta la popolazione hanno avuto un impatto diretto sulle attività produttive di ogni genere, visto che il fattore paura, le minacce e le ritorsioni, anche tragiche, rallentavano tutto. Immagini le difficoltà, quindi, che ha dovuto affrontare il settore cinematografico, e chi all'interno di questo campo portava avanti una attività critica e il più possibile indipendente, una attività che anche senza tali condizioni di terrorismo spesso incontrava ostacoli, subiva pressioni ed era volontariamente tenuta ai margini.

Per farle un esempio nel dicembre 1995, durante le riprese di La montagna di Baya, nonostante tutte le precauzioni adottate dalla troupe, i rinvii e gli spostamenti continui, l'esplosione di una cassa di munizioni vicino al set provocò la morte di tredici membri della squadra. Abbiamo deciso di andare avanti lo stesso. Era la migliore risposta che potevamo dare in quel momento.


Quali sono le sue considerazioni sul cinema algerino?

Di produzioni cinematografiche in condizioni professionali ce ne sono ben poche e quasi tutte sono delle co-produzioni straniere, visto che non esiste una vera politica pubblica che valorizzi tali progetti. Le strutture che ancora restano in piedi, come il Ministero della Cultura, servono solamente per risolvere i problemi logistici e amministrativi, dall'attrezzatura per brevi video, cortometraggi, a sostegni economici irrisori. Gli stranieri, invece, restano ancora dubbiosi per quanto riguarda le condizioni di sicurezza garantite all'interno del paese, e quindi anche i loro interventi ed il loro sostegno resta limitato.

Una grave lacuna è data, oltre che dall'assenza di strutture promozionali, dalla mancanza di scuole e istituti specializzati nella formazione.

Devo dire però che malgrado le scarse possibilità di fare film, le donne attrici e soprattutto registe si sono appropriate del mestiere come mezzo di espressione e se ne servono sempre di più per raccontare la società, mostrarla in maniera critica, cercando di far riflettere e di aprire gli occhi alle persone, sfruttando lo strumento video, immediato e di maggior impatto rispetto agli articoli sulla stampa.

Stessa considerazione per il cinema cabilo, una realtà militante più che artistica e ancora in lotta per ottenere un reale riconoscimento, dove si privilegia la necessità di produrre a quella della creazione in sé. I quattro lungometraggi (La colline oubliée, Machaho, La Montagne de Baya e Si Mohand u M’hand) realizzati da registi di spessore come Bouguermouh e Meddour fanno tuttavia eccezione a questo clima generale di povertà cinematografica.


Ci parli un po' della sua opera prima, il cortometraggio intitolato Il tutore della signora ministro…

Il film illustra l'insieme di contraddizioni che emergono tra l'art. 11 del codice di famiglia e il ruolo rivestito dalle donne nella società algerina attuale. Nello specifico questo articolo prevede che una donna, qualunque sia la sua età, per sposarsi debba essere accompagnata da un tutore (wali). Un provvedimento che la condanna ad uno stato di inferiorità e subordinazione non solo in ambito privato.


Nel 2004 quando è uscito il suo film come è stato accolto nella società algerina? Ci sono state reazioni ufficiali da parte delle istituzioni?

Nel 2004 il codice di famiglia ha raggiunto i suoi venti anni. Durante tutto questo tempo le donne non hanno mai smesso di denunciarlo, di lottare per l'abrogazione di un insieme di leggi che ha consacrato, in diversi dei suoi articoli, l'ineguaglianza tra uomini e donne nella nostra società. Io ho approfittato di questa triste ricorrenza, i venti anni dalla promulgazione, per lanciare una nuova denuncia, per alzare la voce contro uno strumento giuridico discriminatorio.

Il film, realizzato con mezzi limitati, è stato pensato con questi obiettivi: smuovere le coscienze e far riflettere, e il pubblico femminile che è andato a vederlo ha espresso un'indignazione pari a quella che ho provato nel girarlo.

La stampa nazionale ha accolto favorevolmente il mio lavoro, mentre, a quanto ne so, importanti reazioni istituzionali non ce ne sono state, a parte una lettera firmata di congratulazioni da parte del ministro della Cultura (Khalida Toumi), all'indomani della vittoria al festival del cinema amazigh. Lo stesso ministro che aveva negato il sostegno finanziario all'opera e che mi aveva fatto perdere un sacco di tempo per l'autorizzazione delle riprese.


Ci sono state reazioni nel resto del mondo arabo all'uscita del cortometraggio?

Nel mondo arabo non credo abbia avuto una larga diffusione, a parte in occasione di alcuni Festival di nicchia. Non c'è un vero circuito di distribuzione per la produzione cinematografica. So che Il tutore della signora ministro è stato visto in Marocco ed in Tunisia, ma sempre in programmazioni per un pubblico ristretto.


Secondo alcune recensioni, il suo film trae spunto proprio dall'esperienza personale di Khalida Toumi (attuale ministro della Cultura, in carica dal 2002, nda). Qual è il suo rapporto con questa figura e quali le sue considerazioni al riguardo?

È vero che la protagonista del film è un ministro, con un passato da militante per i diritti umani e soprattutto per i diritti delle donne, ma in realtà questa figura non c'entra nulla con la storia di Khalida Toumi, non la conosco di persona e, al contrario di quanto affermato dalla stampa algerina, non ho preso ispirazione dalle sue vicende per il mio cortometraggio. Invece che ministro la protagonista poteva benissimo essere un giudice, persino il presidente della repubblica, o una qualsiasi altra carica istituzionale di responsabilità; l'obiettivo era mostrare l'assurdità della legge algerina, il paradosso..


Nel 2005 c'è stata una revisione del codice di famiglia. Qual è la sua valutazione?

La revisione c'è stata, certo, ma di fatto si è trattato soltanto di pochi emendamenti che non hanno modificato la sostanziale disparità della condizione tra uomo e donna sancita dal codice. Sono modifiche che intervengono nella forma del testo ma non nella sostanza, almeno secondo me e gran parte del movimento femminista che ancora si batte con coraggio in Algeria.

Nel caso dell'articolo 11, per esempio, viene mantenuta la presenza del wali pur concedendo alla donna la possibilità di rifiutare il tutore, con il consenso preliminare del futuro marito e della famiglia della sposa. Questa modifica, dunque, non toglie la donna da una posizione di inferiorità e non elimina il sentimento di umiliazione da lei vissuta.


Come si pone il codice riformato nel 2005 di fronte ad altri istituti quale il ripudio e la poligamia?

Il codice, dopo la modifica del 2005, rende più difficile l'attuazione di questi due istituti, ma non li ha aboliti, sono ugualmente previsti e autorizzati.


Nessun cambiamento di rilievo, dunque. Questo significa che sarebbe pronta a girare di nuovo Il tutore della signora ministro senza modificare alcun dettaglio?

Ripeto, le modifiche apportate nel 2005 sono del tutto insostanziali, quindi la battaglia del movimento femminista non cambia obiettivo, la denuncia di una condizione di disuguaglianza prosegue e di conseguenza rifarei Il tutore della signora ministro tale e quale. O meglio, se si presentasse l'occasione, girerei un film sulle condizioni degradanti imposte alle donne nei luoghi di lavoro, una tematica altrettanto attuale su cui soltanto recentemente in Algeria si è cominciato a riflettere e a discutere apertamente.

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