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venerdì 5 ottobre 2012

Tortura in Marocco: nuove accuse dopo la condanna di Ali Aarrass

La corte di appello di Rabat ha riconosciuto colpevole di "appartenenza ad organizzazione terrorista" il belgo-marocchino Ali Aarrass. Dodici anni di carcere il verdetto emesso dal tribunale sulla base di una confessione "estorta sotto tortura", denunciano gli avvocati e le ong per i diritti umani. Accuse che si sommano alle pesanti dichiarazioni contenute nella sentenza della Corte europea sul caso El Haski c. Belgio e a quelle rilasciate di recente dall'inviato ONU Juan Mendez.



"La farsa continua" è il commento secco di Nicholas Cohen, uno dei legali di Ali Aarrass, all'uscita dall'aula lunedì 1° ottobre. Il tribunale ha sostanzialmente confermato la pena inflitta in primo grado (quindici anni) al suo assistito, con una lieve decurtazione che non cambia la valutazione generale sul processo da parte del comitato di giuristi schierato a difesa di Ali.

"I giudici non hanno tenuto conto del nostro rapporto dettagliato sulle numerose inosservanze ed hanno preferito dare credito ancora una volta alla confessione che Aarrass è stato costretto a firmare sotto torture indicibili durante il periodo di custodia", ha affermato il legale prima di ricordare che l'estradizione di Ali - passato a fine 2010 dalle carceri spagnole a quelle marocchine nell'indifferenza delle autorità belghe - è avvenuta "in aperta violazione delle misure provvisorie stabilite dall'Alto Commissariato ONU per i diritti umani".

Non è servito a nulla nemmeno l'arrivo a Rabat - per assistere all'udienza - della cospicua delegazione internazionale a sostegno dell'imputato, tra cui figuravano gli avvocati dell'International State Crime Initiative (ISCI) di Londra, l'ex presidente di Avocats sans frontières Marc Nève (membro del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani) e i rappresentanti dello studio legale belga Ius Cogens, promotori dell'iniziativa "l'ultima possibilità per un processo equo in Marocco".

Quella di Ali Aarrass è una storia per lo più sconosciuta e pertanto emblematica per capire l'estrema fragilità in cui versa lo Stato di diritto nel regno alawita. Una storia che si intreccia con la dura repressione del fenomeno islamista (o presunto tale) messa in atto dal governo di Rabat dopo gli attentati del 2003 a Casablanca, denunciata da Amnesty International, Human Rights Watch (HRW) e dalla Federation internationales des drotis de l'homme (FIDH) nei loro rapporti. Ma non solo. Quella di Ali è una storia che illustra anche la complicità dei paesi europei nelle violazioni perpetrate - dietro l'alibi della lotta al terrorismo - sull'altra sponda del Mediterraneo, e il disinteresse di quegli stessi paesi per la sorte riservata ai propri cittadini "di serie B". Una storia - ai lettori italiani che si interessano di diritti umani in Marocco ricorderà da vicino le vicende di Kassim Britel e Younes Zarli - su cui vale la pena ritornare nel dettaglio.


Melilla-Bruxelles a/r

Ali Aarrass è un cittadino marocchino originario delle montagne del Rif, nato e cresciuto nell'enclave di Melilla (città spagnola situata nella costa nordafricana) fino all'età di quindici anni. E' il 1977 quando, dopo la separazione dei genitori, si stabilisce a Bruxelles con la madre e le due sorelle minori e inizia subito a lavorare per sostenere le spese della famiglia. Operaio, venditore ambulante e poi proprietario di una piccola cartoleria in un quartiere abitato prevalentemente da immigrati, Ali è considerato un ragazzo semplice e generoso dai suoi conoscenti, uno che "non si riempie la testa con la politica, ma si dimostra sensibile ad ogni sorta di ingiustizia", dicono di lui le testimonianze raccolte dal comitato Free Ali.

Nel 1989, sposato e ventisettenne, Aarrass acquisisce la cittadinanza belga e, in seguito, adempie regolarmente agli obblighi di leva in una base Nato a Spa. Quando nel 2005 decide di tornare a vivere a Melilla assieme alla moglie Houria, dopo il fallimento della cartoleria e le scarse prospettive lavorative, Ali può essere considerato un cittadino modello. Non mai avuto problemi né con la polizia né con la giustizia di Bruxelles.


L'arresto in Spagna e l'estradizione in Marocco

I guai iniziano, invece, pochi mesi dopo il rientro a Melilla, quando Aarrass viene fermato per la prima volta dalla polizia spagnola nell'ambito di un'inchiesta - condotta con l'ausilio dei servizi marocchini - sul traffico d'armi (2006). Dopo quattro giorni di reclusione Ali viene scarcerato su cauzione e riprende servizio nella piccola ditta di trasporti in cui lavora assieme ad un fratellastro.

L'episodio sembra destinato a non avere ripercussioni, ma nel 2008 un mandato di arresto internazionale proveniente da Rabat determina un secondo fermo, questa volta con l'accusa di terrorismo. In Marocco infatti è stato annunciato lo smantellamento della "cellula jihadista" nota come Gruppo Belliraj, dal nome del belgo-marocchino presumibilmente a capo dell'iniziativa.

Stando agli elementi emersi successivamente durante il dibattimento, il coinvolgimento di Aarrass nell'inchiesta sarebbe il frutto di una confessione (poi ritrattata) fatta da un detenuto durante il suo passaggio nei commissariati marocchini.

Il contesto, all'interno del regno alawita, è quello della "caccia all'islamista" seguita agli attentati del 2003 a Casablanca. Una stretta repressiva che ha portato alla condanna - in assenza delle dovute cautele giuridiche e legali - di quasi 2 mila persone in pochi anni e al ritorno su vasta scala degli abusi e delle pratiche vessatorie su sospetti e prigionieri da parte dei servizi di sicurezza per estorcere loro informazioni (vedi link ai rapporti sopracitati).

Quanto all'affaire Belliraj - strettamente legato alle vicende in cui si trova coinvolto Ali Aarrass - perfino nei cabli della diplomazia americana resi noti da Wikileaks il processo è stato definito una "farsa", sprovvisto delle garanzie di equità e sostanzialmente pilotato fin dal suo inizio. L'associazione marocchina per i diritti umani (AMDH), in prima linea nella difesa degli accusati, ha denunciato inoltre il carattere politico dell'episodio, che ha visto tra gli imputati sei dirigenti di alcuni piccoli partiti di opposizione.

"Il caso Ali Aarrass, come tutto quello che riguarda la famigerata cellula Belliraj, è una macchinazione", dichiara Khadija Ryadi, presidente dell'AMDH. "Alla base di tutta la vicenda c'è l'avvicinamento tra la sinistra e gli islamisti moderati, a cui le autorità hanno voluto opporsi in tutti i modi. Una simile alleanza non era gradita a Palazzo, che ha provveduto a punire i trasgressori. Abdelkader Belliraj è servito da capro espiatorio e attorno alla sua figura - rimasta peraltro oscura - è stata montata la favoletta della cellula terrorista, con l'unico obiettivo di frenare un progetto politico islamo-socialista, ben diverso dalla retorica fondamentalista conosciuta fino a quel momento".

Il filone spagnolo dell'inchiesta Belliraj, intanto, è affidato ad un giudice scrupoloso e determinato - Baltazar Garzon - che si occupa delle indagini sulle reti terroriste attive in territorio iberico dopo gli attentati a Madrid del 2004.

Nel 2009, mentre il tribunale di Rabat condanna tutti i 35 imputati del processo a lunghe pene detentive, Baltazar Garzon pronuncia un "non luogo a procedere" nei confronti di Ali Aarrass, il cui dossier è privo di fondamento, smentendo così le accuse degli omologhi marocchini. Ciò nonostante Ali resta in prigione, in isolamento, mentre la giustizia spagnola trasferisce al Consiglio dei ministri il compito di esaminare la domanda di estradizione presentata dal regno alawita.

E' a questo punto che nascono i primi comitati a sostegno di Ali e si costituisce il pool internazionale di legali schierati in sua difesa. La sorella Farida riesce a mobilitare amici, conoscenti e poi avvocati e giuristi a Melilla, Bruxelles, Parigi e Londra. La detenzione di Ali è ormai illegale e la prospettiva del trasferimento nelle carceri marocchine - considerate le pratiche in esse riservate ai sospetti di terrorismo - un incubo da evitare a tutti i costi.

I comitati interpellano i governi di Madrid e Bruxelles, fanno pressione sulle organizzazioni per i diritti umani e perfino all'ONU il quale, attraverso l'Alto Commissariato per i diritti umani, emette nel novembre 2010 un parere negativo sull'estradizione di Arrass. Ma non basta. Poche settimane dopo l'esecutivo Zapatero dà il via libera al trasferimento, nel silenzio e nell'indifferenza delle autorità belghe che non si premurano nemmeno di avvertire la famiglia. Per diversi giorni Farida e gli avvocati non avranno più notizie di Ali.


"Il Marocco prosegue sul cammino della vergogna" (Ius Cogens)

"L'estradizione del signor Aarrass lo porterà direttamente alla tortura. Alla fine i suoi accusatori impugneranno la prova della sua colpevolezza, una volta ottenuto l'obiettivo prefissato con metodi barbari". Queste le parole pronunciate da Abdelkader Belliraj, sulla base della propria esperienza personale, qualche tempo prima del passaggio di Ali Aarrass nelle mani della giustizia marocchina.

Quanto accaduto nei mesi trascorsi dal momento dell'estradizione all'inizio del processo (aprile 2011) è lo stesso Ali a raccontarlo, in una lettera consegnata alla sorella Farida dove menziona la sua permanenza nel centro di detenzione segreta di Temara, la cui esistenza viene negata dalle autorità di Rabat nonostante le numerose testimonianze rilasciate dagli ospiti di questo luogo, divenuto negli ultimi anni tristemente celebre e sinonimo delle peggiori vessazioni.

"Mi trovo di fronte ad orrori e ingiustizie che nessun uomo potrebbe mai immaginare! Il numero di persone torturate in centri come quello di Temara, prima di essere condotte in prigione, è impressionante. Molti detenuti non hanno né un avvocato né una famiglia che possa prendersi cura di loro. Alcuni sono stati torturati per mesi interi".

Stando al dossier raccolto dai suoi avvocati, Aarrass non sfugge agli abusi e ai maltrattamenti riservati ai compagni di sventura prima di comparire di fronte al giudice istruttore con una confessione firmata in arabo, lingua che non sa né leggere né scrivere. Nessuna prova materiale. E' questo l'unico elemento in mano al magistrato al momento della prima condanna a quindici anni di reclusione, avvenuta nel novembre 2011, cioè pochi mesi dopo la grazia reale che ha permesso la liberazione di alcuni dei detenuti coinvolti nell'affaire Belliraj.

Ma le contraddizioni non finiscono qui. Durante i dibattimenti in primo grado e in appello, Ali ritrattata la confessione e denuncia apertamente i propri torturatori, senza che il giudice tenga conto delle sue gravi asserzioni o decida di aprire un'inchiesta. Allo stesso modo i magistrati ignorano altri importanti elementi apportati dalla difesa, come la registrazione in cui Belliraj scagiona l'imputato o il confronto di Aarrass con il suo presunto accusatore, che nega di conoscerlo e di aver intrattenuto rapporti con lui.

Recentemente il caso di Ali ha suscitato l'interesse dell'inviato ONU Juan Mendez, con cui si è intrattenuto personalmente al momento del suo arrivo in Marocco - lo scorso settembre - per verificare i progressi del regno in materia di rispetto dei diritti umani e di lotta alla tortura declamati dalle autorità di Rabat.

Le pesanti dichiarazioni rilasciate da Mendez al termine del suo soggiorno - secondo cui i maltrattamenti e le sevizie sui prigionieri politici hanno ancora un "carattere sistematico" (vedi allegato), e a cui il governo marocchino non ha mai ufficialmente replicato - sono state impugnate dai difensori di Aarrass durante le ultime udienze, prima che il presidente della corte si affrettasse a togliergli la parola ribadendo che il Marocco è uno Stato sovrano e che tali dichiarazioni non avevano niente a che vedere con la vicenda dell'imputato.

Secondo la delegazione internazionale presente al processo, che ha dovuto far fronte alle intimidazioni dei poliziotti fuori dall'aula, era evidente l'intenzione del tribunale di concludere in fretta il dibattimento, "come se la sentenza fosse stata già scritta".

"La corte non è nemmeno riuscita a salvare le apparenze di un processo equo. Due dei consiglieri si sono palesemente addormentati, mentre il presidente ha continuato a consultare il proprio cellulare", hanno affermato gli avvocati di Ius Cogens.

Nessuna sorpresa, dunque, quando il 1° ottobre scorso Ali Aarrass si è visto condannare a dodici anni in appello, nonostante le incongruenze e le violazioni sottolineate dai legali dell'imputato e nonostante gli ammonimenti provenienti dalle istanze internazionali. "Il Marocco prosegue nel cammino della vergogna", è stato il commento lapidario dello studio legale belga.

Pochi giorni prima del verdetto infatti, oltre alle dichiarazioni di Juan Mendez, anche la Corte europea di Strasburgo - deliberando su un caso molto simile a quello di Ali Aarrass (El Haski c. Belgio) - aveva dichiarato che la tortura rimane una pratica corrente nel regno alawita e che il sistema giuridico marocchino, rifiutandosi di ammettere l'esistenza del fenomeno e di perseguire i responsabili, si rende complice di maltrattamenti commessi su vasta scala.

Ma le accuse mosse dai comitati in sostegno di Ali Aarrass presso gli organismi di difesa internazionale non riguardano soltanto l'atteggiamento dello Stato maghrebino. Una denuncia contro la Spagna, colpevole di aver estradato il cittadino belgo-marocchino malgrado il parere negativo espresso delle Nazioni Unite, è stata ugualmente depositata al Comitato ONU di Ginevra.

Inquietanti risultano infine, agli occhi degli attivisti, gli interrogativi sul comportamento del governo di Bruxelles. Le autorità belghe - condannate nel caso El Haski per la violazione dell'art. 6 della CEDU sul diritto ad un equo processo - hanno giustificato in un primo tempo il loro totale disinteresse per la vicenda Aarrass, asserendo che "la Spagna è uno Stato democratico e di conseguenza si deve avere fiducia nel suo operato". Dopo il trasferimento del detenuto in Marocco, tuttavia, Bruxelles ha continuato ad ignorare la sorte di Ali, invocando l'esistenza di una vecchia legge consolare secondo cui un cittadino belga in possesso della doppia nazionalità, nel momento in cui rientra nella prima madrepatria (pressoché sconosciuta nel caso di Aarrass), perde il diritto a godere del suo sostegno per evitare ogni ingerenza.

Per i comitati in difesa di Ali si tratterebbe in realtà di una giustificazione di comodo, necessaria ad avallare invece la stretta cooperazione in materia giudiziaria con Rabat - ormai in evidente contrasto con le norme della Convenzione europea sui diritti umani - e a coprire l'indifferenza delle istituzioni per un cittadino considerato "di seconda categoria".

"Tutti sapevano che Aarrass avrebbe subito i peggiori maltrattamenti una volta giunto in territorio marocchino. Ci chiediamo - afferma un membro della delegazione all'esterno del tribunale - con che coraggio il governo belga abbia giudicato preminente una disposizione diplomatica del XIX° secolo sulla tutela dei diritti fondamentali di un proprio cittadino che ha sempre adempiuto ai suoi obblighi verso lo Stato. E' forse perché il cittadino in questione si chiama Ali e non Pierre o Michel?".

(Articolo pubblicato in Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica

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