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venerdì 25 maggio 2012

Scrivere, "un bisogno intimo e un atto politico". Intervista ad Abdellah Taia

Abdellah Taia, lo "scrittore di Hay Salam" come ama definirsi, è il primo marocchino ad aver rivelato apertamente la sua omosessualità. Lo ha raccontato nei suoi libri (gli ultimi tre sono tradotti in italiano dalla casa editrice ISBN), dove descrive il Marocco popolare - "ricco nella sua povertà" - che ha conosciuto tra le mura domestiche e per le strade di Salé. Lo ha poi dichiarato pubblicamente sulla stampa nazionale, destando scalpore. Da quel momento il giovane romanziere, oggi trentottenne, è diventato un simbolo di libertà ed emancipazione.



In un paese dove i tabù sociali e politici sembrano resistere alla spinte progressiste, Abdellah Taia ha avuto la forza di rompere il silenzio. Ma la sua è molto di più che una lotta all'omofobia. E' una battaglia contro l'ipocrisia che tiene in scacco la società marocchina. Una battaglia in favore della dignità e della responsabilità individuale. Una presa di posizione decisa per un Marocco senza più complessi né censori.
Per questo lo scrittore ha celebrato dalle pagine di Le Monde le iniziative del Movimento 20 febbraio e di tutti i giovani protagonisti della "primavera araba". Una "rottura mentale prima ancora che politica".
Cresciuto in una famiglia modesta e numerosa - undici tra genitori, fratelli e sorelle - Taia è partito per l'Europa a venticinque anni, terminati gli studi di letteratura francese. Dopo un primo soggiorno a Ginevra si è stabilito a Parigi, dove vive e lavora, in ambito cinematografico oltre che letterario, da più di dieci anni. "Non mi sento in esilio - ci tiene a sottolineare - Parigi è una porta d'accesso alla cultura universale ormai necessaria, ma resto marocchino e arabo nella pelle, nello stomaco, nel mio 'io' più profondo".
I suoi passaggi in Marocco sono frequenti, "più o meno una volta al mese", assicura lo scrittore. L'ultimo proprio pochi giorni fa a Casablanca - dove Osservatorio Iraq ha avuto l'occasione di intervistarlo - al termine di un reading in cui è stata presentata la traduzione araba del suo ultimo romanzo, Le jour du roi (Ho sognato il re, ISBN, 2012).



Durante l'incontro a cui abbiamo assistito lei ha ribadito più volte la grande importanza che ha significato la traduzione in arabo di Le jour du roi (Al-Malik al-Youm, Dar al-Adab, Beirut, 2012). Perché allora ha scritto tutti i suoi libri in francese, la "lingua dell'umiliazione" come l'ha definita lei stesso, piuttosto che nella sua lingua madre?
Non ho mai sognato di fare lo scrittore, di conseguenza non ho riflettuto sull'utilizzo di una lingua piuttosto che un'altra. Scrivere è un qualcosa che si è rivelato poco a poco, grazie alla mia passione per il cinema. Fin da piccolo adoravo i film egiziani che trasmettevano alla televisione o al cinema il sabato pomeriggio. A farmi sognare erano le attrici come Nadia Lotfi, Suad Hosni o Faten Hamama, il sentimento di libertà che esprimevano attraverso il loro corpo e la loro sensualità.
Volevo diventare un regista, ma in famiglia non c'erano abbastanza soldi per poter pagare gli studi di cinema. Così mi sono iscritto all'Università di Rabat in letteratura francese anche se, venendo dalla scuola pubblica arabofona, la mia conoscenza della lingua era scadente. Per cercare di perfezionarla e per non sentirmi più umiliato di fronte ai compagni che avevano studiato nelle scuole private della mission française, ho iniziato a tenere un diario, che con il tempo si è trasformato in un esercizio di scrittura più "serio".
Ma il mio rapporto con la lingua francese rimane conflittuale. E' una lingua che non domino ancora perfettamente. In più, la associo al passato coloniale del mio paese e all'idea di classi sociali. Solo i ricchi la parlano e se ne sono serviti per tracciare una linea gerarchica che li separa dal resto della popolazione. Allo stesso tempo, però, è uno strumento che mi ha permesso di "alzare la voce".
L'arabo (nella sua variante marocchina) è invece la lingua dell'intimità, la lingua con cui ho cominciato a sognare e che mi resta tuttora attaccata alla pelle. Perfino il modo di esprimermi in francese, in fondo, ha un gusto arabo, come le cicatrici che porto addosso. Del resto la prima volta che ho parlato apertamente della mia omosessualità l'ho fatto nella mia lingua madre, rispondendo alle domande di due giornalisti marocchini [al-Ayam, al-Jarida al-Okhra]. Lo scandalo fu ancora più grande, ma era importante che il messaggio potesse arrivare a tutti.
Quindi, il fatto che Le jour du roi sia stato tradotto in arabo, e da una delle case editrici più prestigiose, è un evento fondamentale, che mi offre la possibilità di raggiungere un pubblico a cui tengo particolarmente. Quando mi hanno consegnato una copia di Al-Youm al-Malik credevo di avere in mano il romanzo di qualcun altro. Mi sono tornati alla mente i libri della mia infanzia, Nagib Mahfuz per esempio, o i volumi polverosi che sfogliavo nella biblioteca dove mio padre lavorava come impiegato. In quel momento ho provato un sentimento di cui ignoravo l'esistenza, la fierezza.

Il suo passato a Salé, nell'umile quartiere di Hay Salam, emerge con forza in tutti i suoi libri, dove descrive i giochi e le lotte tra ragazzi, le prime avventure erotiche, ma anche alcuni scorci della città, all'apparenza banali, di cui restituisce la storia e a cui attribuisce uno status che definirei "poetico". Qual è il rapporto che la lega a questo universo? E' un'esigenza di memoria che risponde alla nostalgia maturata dopo la partenza in Europa oppure un attaccamento profondo che non si è mai reciso?
Sono figlio di Salé, figlio di Hay Salam uno dei suoi quartieri più poveri dove ho fatto il mio incontro con la vita. Tutto parte da lì, perfino il mio modo di essere omosessuale è intrinsecamente legato agli odori, ai sapori e alle esperienze di quegli anni. Per me è inevitabile che questo mondo, nella sua dimensione intima come in quella "pubblica", risorga con impeto ogni volta che scrivo, perfino ogni volta che parlo. Un impeto dove violenza e tenerezza si mescolano fino a confondersi. No, non si tratta di semplice nostalgia.
Un paio di anni prima di vincere la borsa, che mi avrebbe poi permesso di proseguire gli studi a Ginevra (1998), ho avuto una sorta di rivelazione, letteraria e allo stesso tempo esistenziale. Stavo lavorando sulla poetica di Marcel Proust. Il suo discorso sull'interpretazione dei segni e sul legame tra questi e la realtà mi ha aperto gli occhi. Molte volte non capiamo quello che vediamo, o meglio non siamo in grado di decifrarlo e di coglierlo fino in fondo. Secondo Proust solo un miracolo o la morte, dunque la prospettiva di perdere la nostra quotidianità, possono spingerci a riflettere in modo diverso sulla quotidianità stessa, su quanto osserviamo e viviamo giorno per giorno.
Così ho cercato di applicare questa lettura e di osservare Rabat-Salé [le due città sono separate dal fiume Bouregreg, ma costituiscono un unico agglomerato urbano, nda] con occhi diversi. Mi ripetevo che anche il piccolo mondo in cui vivevo - mia madre, le mie sorelle, la mia famiglia e l'umile quartiere di Hay Salam - era carico di segni che dovevano essere interpretati, riscoperti. Era una pretesa forse troppo naive. Ma, nella sua ingenuità, mi è stata di grande aiuto.
Sapevo che presto avrei abbandonato quell'universo. Per crescere dovevo partire, lasciare i luoghi della mia infanzia e della mia adolescenza. Ero pronto a tentare tutte le strade possibili. Tuttavia, fino a quel momento non avevo mai riflettuto sul fatto che, partendo, l'odio provato per Rabat-Salé e la sensazione di trovarmi chiuso in una prigione, prima o poi, sarebbero scomparsi. Dovevo approfittare del tempo che ancora mi restava per superare quell'istinto di rifiuto e assaporare il mio quotidiano, immagazzinare il più possibile.
Ho cominciato a camminare e a lasciarmi trasportare in una realtà che credevo di conoscere ma a cui non avevo mai attribuito alcuna importanza. Ho cercato di rendere la mia vita intensa e palpitante, pur nella sua apparente semplicità, e di scrollarmi di dosso la noia e la stanchezza che in quel periodo mi portavo dietro.
La scrittura credo sia arrivata in quel momento, a mia insaputa. Quando ho lasciato il Marocco avevo già maturato una sorta di "fedeltà" per quel mondo che prima detestavo. Una fedeltà interpretata alla mia maniera, un sentimento controverso che non può essere paragonato ad una nostalgia facile e innocente.

Se non sbaglio questo suo momento, questo sentimento di fedeltà è spiegato bene nel libro L'armée du salut (L'esercito della salvezza, ISBN, 2009).
Sì, in quelle pagine ho cercato di restituire le impressioni, gli stati d'animo e i dubbi che hanno preceduto e poi accompagnato la mia partenza. Il passaggio dal ragazzino con i piedi scalzi che ero, all'uomo indipendente che stavo diventando. Il libro racconta la difficoltà con cui ho vissuto il distacco dal mio "primo mondo", il timore di ritrovarmi solo, quel misto di incertezza e euforia con cui sono scivolato lentamente in una nuova dimensione. Ma tratta anche di violenza, di amori difficili e di sessualità, un aspetto spesso associato al pudore, ma di cui non si dovrebbe mai aver paura di parlare.
L'armée du salut rappresenta così una sorta di libro-matrice, un libro che racchiude l'origine di tutto ciò che sono. Riprende quanto avevo già scritto in precedenza e allo stesso anticipa alcuni spunti approfonditi in Une melanconie arabe (Uscirò da questo mondo e dal tuo amore, ISBN, 2010) e Le jour du roi. E' una sorta di crocevia esistenziale e allo stesso tempo stilistico, dal momento che ha segnato il passaggio dal racconto al romanzo. Un romanzo, però, fatto a modo mio, dove l'intreccio è simile alla base di un mosaico in cui vanno ad incastrarsi i tasselli: tante micro-storie legate assieme da un filo autobiografico.

La sua scrittura dolce e allo stesso tempo severa, nuda, il suo linguaggio mai ricercato, conferiscono alle sue pagine una sensazione di profonda intimità. Lei stesso ha più volte dichiarato che i suoi libri nascono sempre da un'ispirazione autobiografica. Perché?
Non penso che farò lo scrittore per tutta la vita. Quando non avrò più niente da dire mi fermerò. Ma fino a quel momento, tutte le pagine che ancora scriverò continueranno a parlare della mia verità, fatta di storie ed esperienze di cui sono stato testimone intimo e privilegiato. Storie che in certi casi mi assillano ed hanno voglia di uscire allo scoperto.
La mia scrittura parla di ciò che sono e di ciò che conosco, non riesco ad inventare. Anche quando l'immaginazione interviene, è legata al linguaggio e al contesto del mio vissuto. Possiamo definirla autobiografica, pur non essendo autoreferenziale. I riflettori non sono puntati su di me, ma sulla realtà in cui sono immerso. E' questa realtà che mi offre lo spunto e la vitalità necessaria ad esprimermi.
Per esempio, non credo che potrei scrivere senza trarre ispirazione dalle eroine che per prime mi hanno dato la forza di confrontarmi con la vita: mia madre, le mie sorelle, le attrici egiziane di cui parlavo prima. Non posso scrivere senza che dalle mie pagine affiori la durezza e la solidarietà conosciuta fin da piccolo tra le mura domestiche. Eravamo undici persone in casa, con un solo stipendio per nutrirci, e a volte mia madre era costretta a vendere i suoi vestiti per sfamarci tutti.
Talvolta penso a me come un semplice scrivano pubblico a cui è affidato il compito di tramandare frammenti di memoria. Nonostante il grande insegnamento di Mohamed Choukri, con Le pain nu e Le temps des erreurs, o Abdelhak Serhane, in Marocco non si raccontano mai abbastanza le gioie e le sofferenze legate alla quotidianità, ancor meno all'intimità, come se non fossero abbastanza nobili o eroiche per poter essere ammesse nell'universo della letteratura.

In un suo testo viene menzionato il passaggio di Pier Paolo Pasolini a Salé. Alcuni brani dei suoi romanzi sembrano perfino ricordare l'universo ritratto in Ragazzi di vita. Quale spazio occupa questa figura nel suo percorso, letterario e non?
Sinceramente non sono un conoscitore esperto della figura di Pasolini, sebbene sia un estimatore della sua opera, soprattutto cinematografica. Il Vangelo secondo Matteo resta per me un capolavoro assoluto. Tuttavia, nonostante alcuni possibili parallelismi, non posso dire di aver tratto ispirazione dai suoi romanzi.
Invece sono rimasto stupito quando un vecchio amico mi ha raccontato che negli anni sessanta Pasolini aveva trascorso qualche giorno a Salé, in cerca di attori per un suo film. L'ho immaginato immerso nei vicoli tortuosi della medina, poi a spasso per il cimitero che separa le mura della città dall'oceano, intento a catturare frammenti di una realtà che immaginavo povera, ma che in realtà non lo era affatto dato che una grande persona come Pasolini ne era rimasto affascinato. Questi dettagli mi hanno spinto ad amarlo e a rispettarlo ancora di più. E' stato come scoprire un legame diretto tra Pasolini e il mio mondo, fatto di quell'universo popolare - sincero e autentico nella sua povertà - dove ero cresciuto, e della passione per il cinema che, come ho detto, mi accompagna fin da quando ero bambino.

Cosa significa essere omosessuale in Marocco? Secondo lei sta cambiando qualcosa nella percezione sociale di questa alterità o resta un tabù insormontabile? Sul piano della giurisdizione, invece?
L'unico cambiamento è che sembra finalmente possibile poter parlare di omosessualità, lanciare il dibattito. Resta un tabù sociale, nella grande maggioranza dei casi, ma a livello mediatico qualcosa si è mosso. Prima l'omosessualità era esclusivamente associata allo scandalo, alla vergogna, al rifiuto. Oggi alcuni giornalisti sembrano andare contro-corrente, ne scrivono apertamente, in modo oggettivo e, come nel caso di Tel Quel, gli dedicano addirittura la copertina.
Per me è un passo avanti che si registra più o meno in tutte le società arabe, dove è stato coniato un nuovo termine, neutro, per indicare l'omosessuale: mithly. Un'espressione priva della connotazione negativa e offensiva che mantiene per esempio la parola zamal. E' un segnale, un riflesso: c'è un'avanguardia sociale che è molto più progressista dei governi in carica, che cerca di cambiare lo sguardo e la percezione del fenomeno, anche se le leggi restano fortemente restrittive in materia. Secondo l'articolo 489 del codice penale, gli omosessuali sono passibili di una condanna da sei mesi a tre anni di carcere. L'affaire Ksar El-Kebir [6 arresti nel 2005 in seguito alla celebrazione di presunti matrimoni gay, nda] è lì a ricordarcelo. In quell'occasione, perfino il ministro dell'Interno pubblicò un comunicato in cui ribadiva l'impegno dello Stato nella protezione della morale pubblica.
Tuttavia, non mi aspetto certo che le autorità siano disposte ad accettare la nostra identità dall'oggi al domani, non è il loro riconoscimento o la loro benedizione che ci permetterà di esistere. Serve la volontà e la forza di camminare a testa alta, di liberarsi dall'autonegazione per poter spingere verso un cambiamento della mentalità. Come sta facendo per esempio Samir Barghachi, un giovane marocchino che ha creato l'associazione Kifkif ["la stessa cosa", non riconosciuta dalle autorità di Rabat, l'organizzazione è stata registrata in Spagna, nda] e nel 2010 ha lanciato il primo giornale online di riferimento per il movimento omosessuale maghrebino - Mithly per l'appunto - in lingua araba.

Come ha trovato il coraggio di svelare pubblicamente la sua omosessualità?
Non si è trattato propriamente di coraggio, piuttosto di un momento di estrema lucidità, peraltro inatteso, in cui ho percepito una forza che non sospettavo di avere. Avevo già parlato di omosessualità nei tre libri pubblicati all'epoca [Mon Maroc, Le rouge du tarbouche, L'armée du salut], ma non avevo mai pianificato una pubblica ammissione, per di più ad un giornale marocchino, come poi è successo.
Così, quando il giornalista mi ha posto la domanda in maniera diretta, ho avuto paura. Ma invece di tacere, di nascondermi, ho risposto in modo altrettanto diretto. Era il momento di essere precisi, chiari e di andare fino in fondo. Era l'occasione per rompere con l'ipocrisia, un problema che imprigiona la società marocchina e che va ben oltre la questione dell'omosessualità. Ho capito in seguito che quella "confessione" aperta  non era altro che il proseguimento di un percorso interiore intrapreso proprio attraverso la scrittura. Un percorso letterario ma anche politico. Scrivere ha rappresentato il passaggio dalla teoria all'azione, la mia discesa sul terreno di battaglia per difendere l'idea di un Marocco libero da tutti i suoi complessi.

Come ha accennato in precedenza, le interviste rilasciate nel 2006 ai giornali al-Ayam e al-Jarida al-Okhra e poi il reportage del settimanale Tel Quel, che l'anno dopo le dedicò la copertina, suscitarono scandalo nell'opinione pubblica marocchina. Da dove arrivarono gli attacchi più duri?
Soprattutto dalla stampa conservatrice, come al-Massae che ad un certo punto lanciò perfino delle minacce di morte. Ma anche da certi scrittori, che ripetevano: "la società marocchina ha altri problemi da risolvere piuttosto che quello degli omosessuali", come se la mia esistenza e i miei testi fossero ridotti alla sola identità sessuale. Poi gli insulti su internet, certi ex compagni dell'università che di colpo sono riapparsi nella mia vita per giudicarmi. Tuttavia, devo ammettere che non mi sono interessato molto a quelle polemiche. Ero intimorito e non avevo la forza necessaria per sopportare un certo "linciaggio" mediatico, né la voglia di rispondere a tutti i miei detrattori.
Anche la famiglia, che fin dall'inizio aveva accettato di malavoglia la mia prosa autobiografica, reagì negativamente a quelle dichiarazioni. Una delle mie sorelle aveva trovato il giornale al-Ayam aperto sulla pagina dell'intervista, sopra la sua scrivania. Qualche collega ce lo aveva messo a posta. Mia madre mi chiamò infuriata, dicendomi: "che cos'hai fatto? Noi non siamo così!".
Ma la reazione della famiglia, che la si voglia considerare giusta o ingiusta, non mi ferì. Era una situazione a parte, più complessa, e in ogni caso mi sentivo pronto ad affrontarla senza il bisogno di rinnegare nulla, né le mie scelte né il passato e il sentimento che ci univa. Il rapporto con mia madre, pur avendo maturato una sorta di venerazione per la sua figura, non era mai stato semplice e il fatto che abbia rifiutato di sposarmi e che poi sia partito in Europa aveva aumentato la tensione. Così, dopo quella sfuriata, ho cercato di risponderle, di parlarle in maniera serena e al contempo decisa. Le ho scritto una lunga lettera, che cominciava più o meno con queste parole: "credimi non ho nessuna voglia di sporcarti, di ricoprirti di vergogna. Ma la verità, la mia verità, ho bisogno di rivelartela. Devo raccontarti quello che sta cambiando in me".

La sua "confessione", tuttavia, non provocò soltanto reazioni negative. Se ben ricordo ci fu anche una sincera manifestazione di solidarietà nei suoi confronti.
Assolutamente. I giornali progressisti, Tel Quel, Nichane e Le Journal Hebdomadaire su tutti, mi hanno sostenuto ed hanno condannato l'accanimento di cui ero vittima. Ma ciò che più mi ha impressionato, positivamente intendo, è stata la reazione della gente comune. Ad esempio, ricordo che dopo una lettura pubblica in una libreria di Casablanca, un uomo si è avvicinato a me tenendo per mano una ragazzina e ha detto: "figlio mio, la mia bambina vuole diventare come te, vuole fare la scrittrice. Conto su di te perché continui a coltivare questo sogno..". Non potrò mai dimenticarlo. Questo gesto per me ha un significato profondo. Durante l'incontro avevo parlato apertamente di tutto, della mia vita, della mia omosessualità e nonostante ciò un padre, marocchino, ha aperto le braccia chiedendomi di aiutare sua figlia a scrivere. E' stata la testimonianza che un "altro" Marocco esiste. Un Marocco libero, che ha il coraggio di riflettere con la propria testa, nonostante sia stato fatto di tutto per impedirlo. Un Marocco in cui credo fortemente.

Lei ha definito il libro collettivo Lettres à un jeune marocain (2009)*, di cui è stato il promotore, "una mano tesa verso la gioventù perduta e isolata" del suo paese. Perché la considera "perduta e isolata" e da dove è venuto il bisogno di scrivere e pubblicare quelle lettere?
I giovani marocchini sono " perduti e isolati" perché restano esclusi dall'attenzione sociale e dall'interesse di un sistema politico ontologicamente conservatore. Lo vediamo nella pessima qualità dei programmi di istruzione, nella mancanza di progetti di sviluppo o di inserimento lavorativo a lungo termine, nello spazio marginale che è relegato alla cultura. E' una costatazione di dolorosa impotenza.
L'energia che percepiamo anche solo per le strade, quando ci troviamo in Marocco, la vitalità e l'attivismo che germoglia dal basso, non si trasforma in cambiamento, in rinnovamento. Si perde a poco a poco, lascia spazio alla voglia di andarsene o viene affogata negli arcaismi che reggono ancora la nostra società, nella paura che l'ha dominata per decenni.
Io stesso vengo da questa realtà, dove si ha l'impressione che il governo, dal sovrano all'ultimo gradino dell'amministrazione, non ci conosca, non parli il nostro linguaggio e non si rivolga a noi. Nemmeno gli intellettuali, o la classe colta in genere, prestano troppa attenzione alla popolazione. In Marocco c'è una profonda frattura sociale che sembra accentuarsi, invece di ridursi, negli ultimi anni. Una frattura di ordine generazionale, ma anche politico ed economico.
Ciò che mi ha spinto a lanciare l'idea delle Lettres à un jeune marocain, è stato il gesto dei due giovani fratelli kamikaze che nel 2007 si sono fatti esplodere insieme, di fronte al Consolato statunitense di Casablanca. Dopo lo choc provocato da quell'episodio tragico, ho scritto un articolo intitolato "Il faut sauver la jeunesse marocaine" [Tel Quel, aprile 2007]. Le lettere raccolte nel libro sono state il passo successivo.
Volevo parlare a quei ragazzi, volevo dar voce al loro sentimento di impotenza, alla rabbia. Potevo immaginare quello che era successo nella loro testa e poi nel loro corpo. Mi sentivo anch'io uno dei personaggi di un film alla Paradise Now. Per di più, nei giorni seguenti all'attentato, avevo letto alcune reazioni che mi hanno ferito. "Non erano dei veri marocchini, non è questa la nostra educazione", erano i commenti più diffusi. Io ho sentito il bisogno di difenderli in qualche modo.

* L'opera, che raccoglie 18 lettere di scrittori e artisti marocchini, fu distribuita gratuitamente come supplemento dei giornali Tel Quel e Nichane.


Nell'articolo "Il faut sauver la jeunesse marocaine" lei ha scritto: "il Marocco mi preoccupa. Da vicino e da lontano. Ciò che sta succedendo in questo paese è molto grave […] una tragedia moderna a cui non posso rimanere insensibile, ma l'essere arrivati a questo punto non costituisce in sé una vera sorpresa". Perché?
Come accennavo sopra, il fatto che quei ragazzi siano diventati fanatici islamisti non significa che non abbiano diritto ad una difesa. Al contrario, sono fin troppo evidenti i motivi che li hanno portati a certe scelte, a compiere un simile gesto di violenza estrema. Con il mio articolo, e poi con il libro, non ho cercato di giustificarli, ma ho voluto liberare un grido lacerante che da tempo mi ribolliva dentro, ho voluto lanciare un messaggio: è arrivato il momento di fermarsi a riflettere, di interrogarsi e comprendere un malessere ben radicato nella nostra società.
Anche io ho vissuto l'odio per un Marocco indifferente. Mi sono sentito schiacciato e maledetto, ed ho maledetto a mia volta un paese che sembra appartenere solo ai ricchi. Quanto successo ai due fratelli kamikaze o agli altri giovani provenienti dalla baraccopoli di Sidi Moumen [Casablanca], che si erano fatti esplodere nel 2003, sarebbe potuto succedere anche a me. Mi sentivo povero, solo, abbandonato ai miei tormenti, succube dei diktat del gruppo, della religione e di chiunque potesse vantare un briciolo di potere. Due cose mi hanno salvato. Mia madre M'Barka, che non ha mai smesso di incoraggiarmi nei miei studi, e l'amore per il cinema. Per questo ho concluso il pezzo dicendo: "gli attentati terroristi di Casablanca sono atti criminali, ma lo è anche l'inerzia con cui si continua ad abbandonare la gioventù di questo paese a se stessa".

Un paio di anni dopo la pubblicazione di quelle lettere sembra che una risposta sia arrivata dalla stessa gioventù marocchina (e non solo). Che cosa rappresenta per lei il Movimento 20 febbraio?
Il Movimento 20 febbraio è l'evento politico più importante a cui ho assistito nella mia vita. A 38 anni ho imparato tantissimo da questi ragazzi, dal loro coraggio nello scendere in strada, nel rompere tabù e mettere fine al silenzio e alla paura. L'ammirazione che provo per loro non l'ho mai sentita per nessun altro.
Per poco che sia il risultato politico ottenuto fino ad ora, vedere il loro coinvolgimento, la solidarietà attiva, la volontà di esporsi in prima persona per rivendicare il diritto di decidere del proprio destino, ha rappresentato un'iniezione di speranza. Per me è l'inizio di una rivoluzione, il sintomo di una rottura soprattutto mentale. Anche se le mobilitazioni sembrano essersi placate, il germe del movimento continua a farsi largo in una società che è rimasta troppo a lungo assopita e votata all'obbedienza.

Lei ha sostenuto esplicitamente il Movimento 20 febbraio con una serie di articoli pubblicati su Le Monde e sul settimanale Tel Quel. Non si può dire lo stesso nel caso degli altri scrittori marocchini (eccetto Abdehak Serhane e Abdellatif Laabi) o più in generale del panorama intellettuale, rimasto silenzioso e distante anche nei mesi più caldi della protesta. Secondo lei esiste ancora una vera classe intellettuale nel suo paese oppure è soltanto un ricordo degli anni '70 e '80?
Non so se esista ancora, in effetti anche io me lo domando. Certo il tempo dei Mohamed Choukri, Driss Chraibi, Mohamed Khair Eddine, delle riviste Souffle e Lamalif è lontano, e non soltanto sul piano cronologico. In questo clima di risveglio, la classe intellettuale ha brillato per la sua assenza, per la sua apatia. Una constatazione che conferma il suo distacco dalla realtà sociale e politica del paese.
Ma non importa, che continuino pure a dormire. Ciò che conta oggi è che centinaia di ragazzi, di diciotto-ventanni, siano in prima linea per chiedere il cambiamento. In piazza di fronte alla polizia, nei quartieri poveri dove fanno sensibilizzazione, nelle università. Sono loro che bisogna sostenere, sono loro l'esempio da seguire. Da un anno e mezzo a questa parte i giovani rivoluzionari marocchini, ma più in generale di tutto il contesto arabo, hanno dimostrato ancora una volta di essere all'avanguardia su chi li governa e su chi appoggia, tacitamente o meno, regimi cancrenosi. Questi giovani, ispirati e ben motivati, non hanno bisogno della benedizione degli intellettuali.

Dopo un 2011 segnato dalle contestazioni di piazza e dalla riforma della costituzione voluta dal sovrano, sembra che poco sia cambiato, in realtà, nella struttura di potere. Il makhzen (apparato di regime che ha il vertice nel palazzo reale) non sembra aver ceduto le sue prerogative. Ciò nonostante si sono tenute delle elezioni sostanzialmente trasparenti, che hanno consacrato una formazione di ispirazione islamica come primo partito in Parlamento. In che modo ha vissuto l'ascesa al governo del PJD?
Con naturalezza. Una parte della popolazione che si è recata alle urne ha votato per loro. Era prevedibile, in un panorama politico atrofizzato dalla corruzione e dai legami clientelari, il PJD ha beneficiato di una indiscussa credibilità ed ha presentato un programma votato al rafforzamento dello stato sociale. Sinceramente spero che riescano a metterlo in pratica, ne hanno tutto il diritto e servirebbe almeno a migliorare la situazione socio-economica del paese.
Il resto per me è demagogia: sia utilizzare la religione per fini politici sia stigmatizzare ad ogni costo gli islamisti, un'attitudine che per giunta non fa che rafforzarli. Credo invece che ogni persona che si definisca democratica non possa prescindere dall'instaurare una dialettica intelligente con queste forze. Ciò significa aprire un dibattito sul loro operato politico e su tale base formulare un giudizio, non emettere condanne ideologiche a priori, cadendo così nello stesso errore dei fondamentalisti.
Certo, io sostengo l'instaurazione di uno stato laico. Ma penso che il miglior modo per raggiungere questo obiettivo non sia lanciare anatemi contro un nemico dipinto a tinte infernali. Cerco piuttosto, ogni volta che ne ho la possibilità, di confrontarmi in modo costruttivo con la realtà che mi sta di fronte, una realtà di cui i partiti e l'elettorato islamista sono parte integrante.

Ha appena parlato di islamismo e di laicità. Lei si definisce una persona credente? Qual è il suo rapporto con la religione?
Non ho nessun problema con la religione, soprattutto con quella degli altri, finché non va a incidere sulla mia libertà. Detto questo, c'è una parte di me che è credente. La parte che resta legata a quella religiosità ancestrale - fatta di santi, marabut e jinn - ereditata da mia madre. La definirei quasi una religione reinventata.
Di solito in Marocco, quando si parla di jinn, santuari e credenze esoteriche antecedenti all'islam, si pensa solo ai poveri e agli ignoranti. Per me è l'inverso, è lì che risiede la ricchezza e la poesia dei marocchini. Ricordo mia madre mentre declamava versi, inventava storie o partecipava a brevi rappresentazioni nel piccolo marabut vicino al cimitero di Salé. Sono momenti, come è percepibile in tutti i libri che ho scritto, che mi hanno impressionato e a cui non sono disposto a rinunciare. Istanti in cui l'umano e il divino si sono avvicinati al mio sguardo ancora bambino con genuinità, senza bisogno sovrastrutture o impianti dottrinali. Credere, per me, significa rimanere fedele a quest'universo, al ricordo di mia madre morta un anno e mezzo fa, e rispondere così ad un bisogno di spiritualità insito nella natura umana.


(Articolo pubblicato in Ossrvatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

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