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sabato 7 aprile 2012

Lettera dalle carceri marocchine: un detenuto politico racconta la tortura

Ezedine Erroussi, studente all'università di Taza, è in carcere dal 1° dicembre scorso. Da oltre tre mesi ha avviato uno sciopero della fame per protestare contro la sentenza di condanna (5 mesi per appartenenza ad un gruppo illegale) e per denunciare gli abusi subiti al momento dell'arresto. "Sono poco più di un cadavere disteso giorno e notte", fa sapere il ragazzo nel corso di una lettera-choc in cui testimonia le violenze della "nuova era democratica".


In Marocco la detenzione arbitraria e la tortura non sono solo un brutto ricordo legato ad un periodo ritenuto (da alcuni) concluso e lontano, gli "anni di piombo". Sono molte infatti le testimonianze, raccolte nell'ultimo decennio, sugli abusi e le sevizie commesse dalle forze di sicurezza (e dalla polizia politica) a carico di attivisti, presunti terroristi, "separatisti" saharawi o semplici cittadini.
I casi di Zahra Boudkour, Ilham Hasnouni, Rida Benotmane, Kassim Britel e Younes Zarli, o più in generale dei detenuti islamici transitati nell'oscuro centro di Temara dopo gli attentati del 2003 (Casablanca), sono solo alcuni degli esempi recensiti da Amnesty International, Human Rights Watch e dall'Associazione marocchina per i diritti umani (AMDH).
Praticato forse in modo meno sistematico rispetto all'epoca della dura repressione e dei bagni penali di Hassan II, il ricorso alla tortura resta pertanto di attualità nel regno maghrebino, come ha ricordato recentemente il quotidiano francese L'Humanité nell'articolo "De Hassan II à Mohammed VI, les rois passent, la torture reste". Una delle tante "anomalie", troppo spesso taciute dall'opinione pubblica, di un paese che difende - in principio - il rispetto dei diritti umani e che bandisce l'uso della tortura (art. 22), ma che nei fatti rimane lontano dai buoni propositi consacrati recentemente dalla nuova costituzione.
Un'anomalia che il detenuto n. 7000096 della prigione di Taza, Ezedine Erroussi, non manca di sottolineare nel corso della sua lunga lettera (scritta dal carcere il 20 febbraio scorso), di cui pubblichiamo di seguito alcuni dei passaggi più significativi.
Appartenente all'organizzazione della gioventù marxista (basistes o qaidistes) e attivista del sindacato studentesco (UNEM), Ezedine è stato fermato dalla polizia ad inizio dicembre durante un sit-in. Il ventenne stava manifestando assieme ad altri compagni per denunciare le precarie condizioni di vita patite all'interno del campus universitario.
Il giovane, da oltre cento giorni ormai in sciopero della fame, dovrebbe lasciare la sua cella il prossimo 1° maggio. Ma intanto continua a portare avanti dalla prigione la battaglia per la giustizia e la dignità, mentre la sua vita "è appesa più che mai ai tubi dell'alimentazione artificiale", come ricorda Mouha Oukriz, coordinatore del comitato di sostegno #FreeEzedine#.

Il "diaro della tortura"
"Sono stato bloccato da una trentina di agenti, che si sono accaniti su di me con i manganelli fino a farmi perdere conoscenza. Mi hanno legato e trascinato per i piedi su un veicolo blindato parcheggiato davanti alla facoltà. […] Lì mi hanno spogliato, insultato e picchiato con violenza, calpestandomi più volte sulla pancia e sulla testa. Poi un agente mi ha infilato una pistola in bocca, dicendomi: «un solo colpo e per te è finita, gli anni di piombo non sono ancora terminati e subirai gli orrori che non hai mai visto durante tutta la tua vita»".
Trasportato in commissariato, la sequenza non cambia.
"Appena arrivati mi hanno spinto dentro, sono caduto per terra e ho sbattuto il viso. Mani e piedi legati, sono stato preso a calci. In seguito mi hanno bendato gli occhi […] mi hanno fatto entrare in una stanza per l'interrogatorio. Non ho reagito alle loro domande. Allora un poliziotto mi ha puntato di nuovo la pistola in bocca e poi alla tempia, insultandomi e minacciandomi: «se non parli ti farò esplodere la testa». Di fronte al mio silenzio prolungato hanno iniziato a strapparmi i capelli, con un tale rabbia che in alcuni punti hanno asportato perfino il cuoio capelluto. Le loro domande insistevano sui particolari dell'organizzazione a cui appartengo. Non ho ceduto […] così, impotenti di fronte al mio mutismo, hanno ripreso la tortura. Mi hanno messo uno straccio inzuppato di fango e olio di motore nella bocca, continuando a pestarmi su tutto il corpo, specialmente nei punti più sensibili. Ho rischiato il soffocamento. Ricoperto di insulti e provocazioni, sono stato trasferito nei sotterranei, dove sono riprese le sevizie. Mi hanno immerso la testa in un secchio pieno d'acqua […] per sei ore ininterrottamente, senza che io pronunciassi una parola. A questo punto sono stato rinchiuso in cella, nudo, senza lenzuola né coperte, con il freddo glaciale che c'era in quel periodo dell'anno".
Le "sedute" di tortura, ricorda Ezedine, sono andate avanti a cadenza quotidiana per tutto il tempo trascorso in commissariato.
"Il mio corpo era divorato dai dolori e dalle piaghe. Avevo mani e piedi fratturati. Non capivo cosa stesse succedendo e soprattutto perché non mi avessero trasportato in ospedale. Non riuscivo a muovermi per le fitte di dolore. […] Mi sono rifiutato di firmare il verbale dell'interrogatorio, consegnatomi in bianco. Non so se l'abbiano firmato al mio posto".
"E' questo lo spirito della nuova costituzione? - si domanda Ezedine nella missiva - E' questa la costituzione dei diritti e delle libertà che ci è stata promessa, la costituzione che garantisce il rispetto dei diritti umani e di quelli del detenuto?".

Un grido di dignità
Dopo la condanna, i maltrattamenti e le torture, Ezedine Erroussi ha deciso di entrare in sciopero della fame (fine dicembre scorso). All'iniziativa si sono poi uniti altri compagni di lotta, rinchiusi nelle prigioni di Taza, Fès, Errachidia e tuttora in attesa di giudizio.
L'azione congiunta è servita a far conoscere la storia del giovane ed a sollecitare la solidarietà degli attivisti marocchini e non, che hanno avviato una campagna mediatica (#FreeEzedine#) per chiedere la sua liberazione.
Il clamore attorno alla vicenda ed il deterioramento delle condizioni di salute del detenuto hanno spinto i rappresentanti del regime a cercare una mediazione, un compromesso per uscire dall'impasse ed evitare una tragedia quanto mai inopportuna.
"Ho ricevuto la visita del Procuratore [nel mese di febbraio, ndr] in presenza di mio padre. Lo hanno convocato per ricattarmi. In quell'occasione mi hanno promesso una borsa di studio permanente, […] un diritto di visita aperto a tutti i miei amici e parenti. Il Procuratore ha detto che era sua intenzione prendersi cura di me".
Il "ricatto" è andato avanti e le autorità hanno promesso ad Ezedine un posto di lavoro, a condizione di interrompere lo sciopero e di rinnegare la lotta portata avanti assieme agli altri compagni in prigione.
"Non ho ceduto - continua il racconto dello studente - ed ho ribadito che l'unica condizione per mettere fine alla protesta è il soddisfacimento delle nostre rivendicazioni e la liberazione dei detenuti politici. [Il Procuratore] ha risposto, rivolgendosi a mio padre: «guardi suo figlio, a cui ho voluto bene, rovina tutto e rende vani i miei sforzi». Mio padre ha replicato: «preferisco che mio figlio muoia piuttosto che viva umiliandosi. Sa quello che fa, e se anche io fossi uno studente, starei al suo fianco qui in prigione»".
E' la dignità, oltre alla determinazione, ad aver spinto Ezedine a rifiutarsi di scrivere la domanda di grazia reale, unica possibilità per sperare in una scarcerazione immediata. La dignità di chi non è disposto al pentimento e a chiedere perdono per aver osato reclamare diritti e giustizia sociale. "Non tornerò sui miei passi. Non sono una pecora e non rientrerò all'ovile".
Dal febbraio scorso, tuttavia, le sue condizioni si sono ulteriormente aggravate. Svenimenti continui e uno stato al limite del coma, come ha denunciato in un recente comunicato l'AMDH. Da allora le autorità carcerarie hanno deciso di alimentare forzatamente il giovane detenuto, tenuto in vita dalle flebo che periodicamente gli vengono somministrate durante i trasferimenti all'ospedale Ibn Bayah. La sua morte, infatti, potrebbe sollevare una nuova ondata di indignazione e critiche alla gestione delle "politiche di sicurezza" da parte del governo in carica, al centro delle polemiche fin dal suo insediamento all'inizio del gennaio scorso.
"Finché le forze e la capacità di autocontrollo me lo hanno permesso - spiega la lettera di Ezedine - ho rifiutato il ricovero e l'alimentazione forzata. Per potermi infilare l'ago nel braccio mi hanno legato al letto dell'ospedale. In 72 ore mi hanno iniettato trenta flaconi di sostanze nutritive e anti-coagulanti. Sei agenti si alternavano per sorvegliarmi, insultarmi e provocarmi. Sembravano in estasi e ripetevano tra loro: «questo qui non vuole ancora morire!»".
"Pur di eludere il mio sciopero della fame illimitato ed evitare la mia morte programmata - continua il ventenne ormai ridotto ad uno scheletro (ha perso più di 20 kg) incapace di sollevarsi o di muovere autonomamente gli arti - il regime si è accanito su di me. Ma fino a quando il sérum riuscirà a tenermi in vita? Fino a quando avrò vene e vasi sanguigni in grado di sopportare tutto questo? Non per molto, ancora. […] Sono poco più di un cadavere disteso giorno e notte".

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