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lunedì 7 novembre 2011

Ennahda: le ragioni di un successo

La vittoria di Ennahda alle elezioni del 23 ottobre, quando i tunisini sono andati al voto per la formazione dell’Assemblea costituente, era considerata acquisita fin dalla vigilia della consultazione. Tuttavia, in pochi immaginavano un’affermazione così netta del partito islamico, che ha ottenuto il 40,5% dei suffragi e il 41,5% dei seggi a disposizione (90 su un totale di 217). Il dato è ancor più significativo se si considera che il secondo partito (il Congrès pour la republique) ne ha conquistati solo un terzo (30 seggi), mentre 23 sono quelli assegnati ai rappresentanti dello schieramento “laico e progressista”. Quali sono le ragioni di un simile successo?



Della vasta popolarità di cui gode il movimento guidato da Rached Ghannouchi si era avuta un’anticipazione in occasione del rientro in patria del vecchio leader. Il 30 gennaio 2011, a due settimane dalla fuga dell’ex presidente Ben Ali, migliaia di sostenitori si erano radunati all’aeroporto della capitale per acclamare il ritorno dello shaykh, dopo ventidue anni di esilio trascorsi tra Algeri e Londra. La messa al bando del partito fin dalla sua fondazione (il Mouvement de tendance islamique MTI nel 1981, divenuto Ennahda – “la Rinascita” – nel 1988), la dura repressione subita durante il regime di Habib Bourghiba (1981, 1987) e sotto Ben Ali (oltre 30 mila arresti dal 1989) non hanno scalfito la base sociale della formazione, che aveva già rivelato la sua consistenza nelle elezioni legislative del 1989, a cui i candidati del partito islamico parteciparono come indipendenti.
I nove mesi intercorsi tra la caduta della dittatura e lo svolgimento delle elezioni (inizialmente previste per il 24 luglio) sono serviti ad Ennahda, più che agli altri partiti, per rilanciare la propria attività su tutto il territorio nazionale, dopo i lunghi anni di esilio, di carcere o di latitanza dei suoi militanti. La formazione islamica ha abilmente sfruttato questo lasso di tempo inaspettatamente offerto dal governo provvisorio per penetrare nel cuore della società tunisina, sia nell’area della capitale che nelle lontane regioni dell’interno, riuscendo ad insediarsi nelle moschee – sotto il controllo della polizia politica fino al 14 gennaio – e riattivando un fitto tessuto di associazioni caritatevoli e comitati di quartiere, legati più o meno esplicitamente alle strutture del partito.


Accuse e polemiche, ma una vittoria incontestabile
Durante la campagna elettorale e nelle ore seguite alla chiusura dei seggi, non sono mancati i dubbi e le polemiche sul comportamento tenuto dagli attivisti islamici (ma non solo), accusati di strumentalizzare la religione a fini politici, di utilizzare i luoghi di culto per la propaganda e di aver fatto uso di denaro sospetto per finanziare la pubblicità elettorale e alimentare la compra-vendita dei voti. Secondo alcune testimonianze riportate dal quotidiano Le Monde, per esempio, i sostenitori di Ghannouchi avrebbero offerto regali e assistenza agli abitanti dei quartieri popolari di Tunisi in cambio del loro contributo alle urne.
Per assicurare una maggiore trasparenza, il governo provvisorio ha affidato l’organizzazione e il controllo dello scrutinio ad un organismo indipendente – l’ISIE (Instance supérieure indépendante des élections) – sottraendo la prerogativa al Ministero dell’Interno simbolo delle illegalità e degli abusi del passato regime.
Secondo i rappresentanti dell’ISIE, le irregolarità riscontrate in occasione del voto non hanno avuto un impatto determinante e soprattutto non hanno inficiato la sostanziale correttezza della consultazione. Un parere condiviso dalle centinaia di osservatori locali e internazionali sparsi su tutto il territorio i quali, pur avendo constatato diverse anomalie, hanno ribadito che i casi di trasgressione sono rimasti isolati e non hanno influito sul risultato finale. Una valutazione differente è invece espressa da Hamma Hammami, segretario del Parti communiste des ouvriers de Tunisie (PCOT), che ha presentato quattro ricorsi accolti dal tribunale amministrativo.
Nonostante le polemiche, dunque, la vittoria di Ennahda appare legittima e incontestabile, tanto che il suo largo successo è stato subito riconosciuto dai maggiori rappresentanti del panorama politico nazionale. Per Abderraouf Ayadi, avvocato da sempre in prima linea nella difesa dei diritti umani e segretario generale del Congrès pour la republique (CPR), la forza del partito islamico era un dato già consolidato, mentre il ruolo giocato dalle moschee o in generale dalla macchina della propaganda è stato secondario. La sua valutazione sul risultato del 23 ottobre offre spunti di riflessione importanti e non trascurabili:
“Ennahda si è vista ricompensata dei grandi sacrifici fatti dai suoi militanti e delle sofferenze patite sotto la dittatura. Il popolo tunisino ha voluto riabilitarli, ed ha utilizzato le urne per dimostrare la sua solidarietà. Questo spiega il grande coinvolgimento emotivo. Per quanto riguarda la strategia, i toni moderati e concilianti adottati dai suoi leader sono risultati ben più convincenti dell’opposizione frontale e della violenza verbale utilizzata nei loro confronti da alcune formazioni. Inoltre, il riferimento all’islam come garanzia di moralità ha attirato la simpatia di molti indecisi, in un paese dominato per decenni da una corruzione endemica a tutti i livelli”.

Un simbolo della resistenza contro la dittatura
Come suggerito da Abderraouf Ayadi, per capire a fondo il risultato del 23 ottobre e il diffuso radicamento di Ennahda in seno alla società tunisina è necessario fare un passo indietro, ben oltre le settimane della campagna elettorale e i mesi successivi al 14 gennaio 2011. L’analisi del voto tunisino non può prescindere infatti dal prendere in esame la capillare repressione messa in atto dal regime, cominciata nei primi anni ottanta e culminata nella “caccia all’islamista” degli anni Novanta, che ha trasformato migliaia di attivisti in bersagli privilegiati di un sistema in cerca di legittimità.
Gli arresti sistematici e le torture subite nelle prigioni (dove sono morti circa trecento militanti), il pugno di ferro di Bourghiba, prima, e di Ben Ali, poi, contro il pericolo fondamentalista, sono serviti sì a stroncare un movimento di opposizione in espansione, ma nello stesso tempo hanno contribuito a forgiare schiere di martiri ed eroi, che hanno elevato Ennahda a simbolo della resistenza contro la dittatura. Un immaginario rimasto ben impresso ancora oggi nella memoria collettiva.
Samir Ben Alaya, membro del MTI a El Kef, è stato arrestato per la prima volta nel 1984 con l’accusa di appartenenza ad un partito illegale. Tre anni dopo è stato fermato nuovamente, durante una manifestazione, e trasferito nel penitenziario di Bouchoucha (Tunisi), un luogo divenuto celebre per le sevizie e i trattamenti disumani riservati ai prigionieri politici. Quando nel 1989 il tribunale ha emesso il terzo mandato di cattura, Samir ha deciso di entrare in clandestinità:
“Ho preferito nascondermi, rimanere sepolto in una cantina umida e senza finestre piuttosto che rischiare di morire in carcere, come è accaduto ad alcuni miei compagni. Se sono riuscito a sopravvivere è grazie all’aiuto di alcuni conoscenti, che si sono occupati di me con discrezione e senza mai cedere al ricatto di chi era sulle mie tracce”. Samir è uscito dal suo nascondiglio il 19 gennaio scorso, dopo ventuno anni di latitanza. Da allora, come lui stesso tiene a sottolineare, i concittadini di El Kef non hanno mai smesso di manifestargli affetto e solidarietà.
Conservare la libertà sotto il regime Ben Ali era un’impresa ardua per un oppositore, e ancor più per un militante di Ennahda. La morsa repressiva dello stato di polizia non ha coinvolto solo gli attivisti, ma anche famiglie ed amici, costretti a continue convocazioni nei commissariati e spesso licenziati dai datori di lavoro sotto la minaccia delle autorità. “Essere un musulmano praticante, adempiere scrupolosamente alla preghiera dell’alba (al-fajr), era sufficiente per attirare le attenzioni della polizia politica e venir schedato come sospetto “islamista”, potenziale nemico del sistema. Gli interrogatori e il passaggio nei sotterranei del Ministero dell’Interno, il sequestro del passaporto e le intimidazioni, erano una normale conseguenza del protocollo di sicurezza”, ricorda l’avvocato Abderraouf Ayadi, spesso incaricato della difesa dei militanti di Ennahda .


L’islam come modello di valori e garanzia di moralità
La forte reazione emotiva e le reti di solidarietà rimaste a lungo celate in una società corrosa dalla paura non bastano, tuttavia, a spiegare le ragioni dell’ampio sostegno (1.501.418 voti) ottenuto da Ennahda, che va ben oltre il numero di simpatizzanti ipotizzato al momento della caduta dell’ex presidente. Tra i meriti del partito di Rached Ghannouchi vi è l’aver saputo rispondere al bisogno di moralità espresso dal tunisino medio, in cerca di valori e integrità dopo un ventennio di gestione “mafiosa” del potere.
Gli oppositori Sihem Bensedrine e Omar Mestiri ricordano infatti come la sopravvivenza del regime sia stata possibile solo grazie alla attenta commistione di misure repressive e corruzione: “[Ben Ali] utilizza l’arsenale punitivo per indebolire la resistenza e mettere la società sotto controllo, mentre si serve della corruzione per assicurarsi la fedeltà di alcuni clan e garantire la perennità del sistema” . A tal proposito, la tesi della ricercatrice Béatrice Hibou va ancora più in là. Nel suo lavoro la Hibou prende in esame i meccanismi di sottomissione economica, i dispositivi arbitrari di promozione o sanzione sociale, il clientelismo diffuso a tutti i livelli e in tutte le categorie, e dimostra come questa strategia di cooptazione e docile asservimento sia riuscita, meglio della repressione e della criminalizzazione del dissenso, a garantire “l’obbedienza”.
Dopo la partenza del dittatore, la necessità di liberarsi dalle pratiche e dalle consuetudini del passato ha spinto una parte della popolazione (appartenente a differenti fasce sociali) ad avvicinarsi alla retorica risanatrice veicolata dalla formazione islamica. Ennahda non era il solo partito a poter vantare un’irreprensibilità morale o un programma incentrato sulla lotta alla malversazione e sulla rimozione dei retaggi del vecchio sistema. Si pensi per esempio al CPR di Moncef Marzouki, al PCOT di Hamma Hammami, legittimi rappresentanti di un’opposizione al regime senza concessioni. Ma il richiamo ai principi religiosi come garanzia e modello di integrità e rettitudine ha fatto breccia piuttosto facilmente in un contesto troppo a lungo caratterizzato dalla mancanza di valori. Un contesto, dove il dogma della modernità ha contribuito al ripiegamento del tunisino nella sua identità arabo-musulmana, minacciata dai canoni imposti dal benalismo.
Il bisogno di valori può essere interpretato come la ricerca di un nuovo binomio dignità-identità, in grado da una parte di sopperire al vuoto morale e dall’altra di andare al di là delle difficili condizioni socio-economiche ereditate dal “miracolo tunisino”. Per questo concetti quali laicità e progressismo, esaltati durante l’era Ben Ali, sono diventati per larghe fasce della popolazione sinonimo di privilegi, dispotismo e neo-colonialismo (visto l’appoggio indiscriminato offerto dai governi francesi al dittatore) , ed hanno smarrito quella capacità di sedurre dimostrata nei primi anni novanta.


La disfatta del “movimento progressista”
La riscoperta dell’islam come insieme di valori condivisi e inalienabili (e non come ideologia di governo) spiega, oltre alla netta affermazione di Ennahda, il buon risultato ottenuto alle elezioni dal Congrès pour la republique e dal Forum démocratique pour le travail et les libertés (Ettakatol, 21 seggi), due formazioni di orientamento socialdemocratico che hanno consacrato parte dei rispettivi programmi alla difesa dell’identità arabo-islamica del nuovo Stato democratico, presentandosi come forze del dialogo in grado di assicurare la massima concertazione all’interno dell’assemblea costituente.
Diverso, invece, è stato l’atteggiamento tenuto durante i mesi di governo provvisorio dallo schieramento (autoproclamatosi) “laico e progressista”, considerato alla vigilia del voto l’unica alternativa politica capace di tenere testa alla compagine di Rached Ghannouchi. I suoi maggiori esponenti, il Parti démocrate progressiste (PDP) e il Pôle démocrate moderniste (PDM) – 23 seggi in totale con rispettivamente il 7,83 e 2,3% delle preferenze – hanno pagato caro i continui attacchi (gratuiti) ad Ennahda e l’enfasi anti-islamista, intensificatasi in periodo di campagna elettorale. Un linguaggio, fra l’altro, che ha richiamato alla memoria la dolorosa battaglia contro l’oscurantismo dichiarata nel paese dopo il 1989, su cui l’ex presidente aveva giustificato l’instaurazione dello stato di polizia, la messa al bando dell’opposizione e la violenza della repressione.
Il rifiuto intransigente esibito dal PDP di fronte ad un’eventuale intesa con il partito islamico e la difesa del principio di laicità come fondamento irrinunciabile del processo costituente hanno destato più sospetti che entusiasmo verso la formazione di Néjib Chebbi, fervente sostenitore – in un passato non troppo lontano – dell’inclusione di Ennahda nel fronte anti-regime e nel futuro governo del paese.
Ad accrescere la diffidenza nei confronti del PDP sono state poi le dichiarazioni rilasciate dallo stesso Chebbi contro la dissoluzione del RCD (il partito di Ben Ali, messo al bando nel marzo del 2011) e la sua partecipazione (ministro dello Sviluppo regionale) ai primi due governi provvisori (gennaio-febbraio 2011), largamente osteggiati dalla popolazione. Identica considerazione nel caso di Ettajdid (PDM), il cui segretario Ahmed Ibrahim è stato ministro dell’Insegnamento e della Ricerca nei due esecutivi post-rivoluzione guidati da Mohamed Ghannouchi e la cui credibilità, in ogni caso, sembrava già seriamente compromessa dall’accordo di coesistenza pacifica siglato con il sistema Ben Ali, che aveva permesso al vecchio partito comunista di accedere al parlamento durante i venti anni di dittatura.
Lo schieramento “progressista” ha incentrato la sua campagna sulla (supposta) frattura tra laici e integralisti religiosi, alimentando uno scontro ideologico lontano dalle priorità della popolazione, nella maggior parte dei casi alle prese con l’alto tasso di disoccupazione e l’assenza di misure assistenziali in grado di favorire l’instaurazione di una vera giustizia sociale. Da questo punto di vista, “la battaglia era perduta in partenza – ricordano i blogger di Nawaat – perché il popolo tunisino non è sceso in strada per chiedere la parità nel diritto alla successione. Gli abitanti di Régueb, Sidi Bouzid e Kasserine sono scesi in strada per rivendicare l’accesso al mercato del lavoro, l’uguaglianza dei cittadini e il diritto alla dignità”.
La distanza fisica (PDP e PDM hanno preferito le grandi conferenze ad un’assidua propaganda di quartiere) e verbale dalle effettive esigenze della popolazione, soprattutto dalle fasce più marginalizzate delle regioni interne, sembra aver sancito la disfatta progressista assieme alla discussa affidabilità di alcuni suoi rappresentanti. Un fallimento che ha contribuito al largo successo degli islamisti, oltre all’affermazione di nuove forze dal linguaggio semplice e incisivo e dalla retorica prettamente populista, come accaduto con la Pétition populaire (19 seggi) del proprietario televisivo Hachemi El Hamdi.


Conclusioni
Dopo la diffusione dei dati parziali dello scrutinio, lunedì 24 e martedì 25 ottobre una piccola folla di circa duecento persone si è radunata all’esterno del Palais des Congrès di Tunisi (arena adibita alle comunicazioni ufficiali dell’ISIE) per protestare contro i primi segnali della schiacciante vittoria di Ennahda. “Abbiamo votato per il trionfo della democrazia, ora invece temiamo una nuova dittatura”, hanno scandito i manifestanti, avvalorando le insinuazioni avanzate da una parte della stampa locale e internazionale.
Il partito di Rached Ghannouchi ha usato toni prudenti e parole rassicuranti fin dai primi giorni post-rivoluzione e in tutta la campagna elettorale. Mentre i media già tratteggiavano i contorni di uno scenario all’iraniana, gridando all’imminente instaurazione di una repubblica islamica tunisina, i responsabili di Ennahda hanno condannato le violenze seguite alla proiezione del film Persepolis , hanno sostenuto la parità uomo-donna all’interno delle liste elettorali e hanno ribadito l’attaccamento ai principi della democrazia, del pluralismo e del rispetto delle libertà dell’individuo (definiti prioritari nel programma). Inoltre, dopo la pubblicazione dei risultati provvisori, tanto Ghannouchi quanto il segretario Hamadi Jebali hanno apertamente auspicato la formazione di un governo di unità nazionale in grado di rappresentare ampiamente le forze elette all’assemblea.
Ma i detrattori del vecchio shaykh non nascondono la loro apprensione per il trionfo islamico e continuano a rimanere diffidenti. Certo, gli scontri con gli studenti di sinistra – tra la fine anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta – nei campus universitari, le ombre sugli attentati di Sousse (1987) e l’agguato a Bab Souika (1991) fanno parte di un passato, seppur lontano, difficile da cancellare per la compagine islamica, nonostante la svolta democratica e il rifiuto della violenza come strategia politica stabiliti nei congressi del 1997 (Belgio) e del 2001 (Londra) . Tuttavia, l’impegno costante – a partire dagli anni Novanta – dei membri di Ennahda nella difesa dei diritti e delle libertà, testimoniato dalla partecipazione attiva all’interno della LTDH (Ligue tunisienne des droits humains), del CNLT (Conseil national des libertés en Tunisie) e in particolare del Movimento 18 ottobre , conferiscono alle dichiarazioni della formazione islamica una credibilità pari, per lo meno, a quella di cui godono in merito gli altri partiti.
“La vittoria islamista porterà ad una limitazione dei diritti della donna e costituirà un ostacolo per la sua affermazione nella società?”, si domandano infine le associazioni femministe. Anche su questo punto la risposta di Ghannouchi è chiara e non sembra lasciar spazio ai dubbi o alle speculazioni del caso: “non toccheremo il codice di statuto personale, anzi consolideremo l’uguaglianza tra uomo e donna nel resto della legislazione, per esempio rivedendo la disparità dei salari” . I propositi del leader, ribaditi dal programma del partito, trovano la miglior conferma negli stessi risultati della consultazione. Delle 49 donne che siederanno in assemblea (su un totale di 217 seggi), 42 sono state elette – con e senza velo – nelle liste di Ennahda, la cui rappresentanza femminile all’interno della costituente sarà pari al 47% dei suoi incaricati.


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