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giovedì 19 maggio 2011

Temara, le torture nella “nuova era” marocchina

Domenica 15 maggio, il Movimento 20 febbraio ha organizzato un sit-in di protesta di fronte al centro di detenzione (clandestino) di Temara, a pochi chilometri da Rabat. Queste almeno le intenzioni dei giovani marocchini, poiché l’“operazione GuanTemara”, atto dimostrativo per chiedere la chiusura del centro illegale e l’apertura di un’inchiesta sull’insieme delle violazioni che vi sono commesse, ha scatenato la dura e immediata repressione delle forze di sicurezza. Le decine di attivisti, radunatesi di primo mattino nella periferia della capitale, sono state aggredite dagli agenti anti-sommossa, che si sono abbandonate a pestaggi e inseguimenti nelle vie del quartiere Hay Riad. Niente sit-in e nessuna inchiesta dunque, per il regime l’affaire Temara resta un tabù e i suoi scheletri devono rimanere gelosamente custoditi nell’armadio. Del resto le autorità, ignorando le numerose testimonianze degli ex detenuti che hanno invaso la rete nelle ultime settimane, continuano a smentire l’esistenza dell’oscuro luogo e lo stesso portavoce del governo, Khalid Naciri, ha ribadito domenica scorsa (mentre i manganelli colpivano i manifestanti a pochi isolati dalla sua abitazione) che “Temara è un complesso amministrativo dove lavorano regolarmente dei funzionari”.


Ma cosa succede veramente a Temara? “Temara è un centro di detenzione clandestino gestito dalla DST, la polizia politica marocchina. Si trova nella “cintura verde”, la foresta che circonda Rabat, creata negli anni ottanta per assicurare un buon clima alla capitale. In questa struttura transitano le vittime degli arresti illegali, delle “sparizioni”. Qui gli agenti della DST eseguono gli interrogatori. Per estorcere informazioni o per ottenere confessioni di colpevolezza si servono della tortura, sia fisica che psicologica. La permanenza in questo luogo può durare da pochi giorni a dei mesi. Poi la detenzione viene “ufficializzata” e i prigionieri trasferiti in un carcere regolare, in attesa dell’inizio del processo”. Queste le parole di Abdelilah Benabdesslam, vice presidente dell’AMDH (Associazione marocchina per i diritti umani), in un’intervista rilasciata a (r)umori dal Mediterraneo nel dicembre del 2009.
Il nome Temara, in Marocco, è ormai sinonimo di sequestri, maltrattamenti e torture. Dopo le inchieste di Amnesty International e della FIDH nel 2004, gli articoli del compianto Journal Hebdomadaire (“Des prisons secrètes de la CIA au Maroc?”, n. 230 – novembre 2005, “Le retour de la torture”, n. 394 – maggio 2009) e il rapporto di Human Rights Watch pubblicato nell’ottobre del 2010, le voci e i sospetti di un ritorno alle violazioni conosciute sotto l’“era Hassan II” (leggi “gli anni di piombo”) sono purtroppo diventate una conferma. A farne le spese, come ricordano i documenti diffusi dalle ong internazionali, sono nella maggior parte dei casi gli islamisti locali, i “sospetti di terrorismo”, oltre agli indipendentisti saharawi, ai militanti della sinistra radicale e alle vittime delle “consegne speciali” statunitensi ai paesi “amici” (come il regno alawita). La “nuova era” del rispetto dei diritti e delle libertà annunciata da Mohammed VI sembra dunque ancora lontana.
Di seguito un dossier di approfondimento su Temara e sulle violazioni della “nuova era”.


Temara, un centro di tortura marocchino

Ali Amar, Slate Afrique, 28 aprile 2011

All’epoca di Hassan II Temara, situata qualche chilometro a sud di Rabat, era sinonimo di quieto vivere e di dolce farniente. Ma il piccolo agglomerato urbano, dotato di una graziosa stazione balneare, da qualche tempo ha radicalmente cambiato reputazione. Al termine della lunga e sinuosa strada che lo costeggia si nasconde, annidato nel mezzo della foresta che cinge la capitale, un centro segreto di detenzione che potrebbe togliere lo scettro dell’orrore alla tristemente celebre prigione di Tazmamart (ribattezzata Tazmamort dal sopravvissuto Aziz Binebine, ndt), simbolo di quegli anni di piombo che hanno sprofondato il Marocco nella paura durante il regno del vecchio monarca (1961-1999).
A Temara, sotto Mohammed VI, i servizi segreti marocchini perpetuano la pratica della tortura, si abbandonano alle sevizie più sadiche costringendo le loro vittime in condizioni di reclusione spaventose. Centinaia di uomini e donne – non si ha nessuna cifra precisa a disposizione – sono transitate in questo luogo, nelle celle minuscole delle sue segrete sotterranee.

Localizzato attraverso Google Earth
Il blogger e giurista marocchino Ibn Kafka ne ha fornito un’oscura descrizione. Mamfakinch, citizen media nato sulla scia della “primavera araba” e ispirato all’azione di Anonymus, ne ha rivelato l’ubicazione esatta con un video satellitare di Google Earth. Il complesso di Temara, ufficialmente sede della Direction pour la Surveillance du Territoire (DST, dal 2003 divenuta DGST), “non è un semplice assembramento di uffici. Si estende su una superficie di diversi ettari ed è cosparso di antenne satellitari. Dalle immagini si possono osservare anche altri tipi di antenne e perfino una sorta di pista a due corsie che permette l’atterraggio di aerei di piccole dimensioni, genere Cessna”, spiega il sito di informazione Demain on-line. “Quello che il video non può mostrare, invece, sono le prigioni sotterranee le cui celle servono da camera di tortura, come hanno testimoniato diversi «ospiti», marocchini e stranieri, che vi sono stati accolti”, aggiunge Ali Lmrabet sempre su Demain. Stando al filmato di Google Earth, il centro (segreto) di Temara è situato a soli due chilometri in linea d’aria dalla residenza reale di Dar Essalam.

Abu Ghraib alla marocchina
Dal momento in cui la caccia agli islamisti si è intensificata, in seguito ai terribili attentati di Casablanca del 2003, migliaia di persone – compresi donne e bambini – sono rimaste vittima degli arresti di massa effettuati dalla polizia nelle principali città del paese. Alcune sono state prelevate dai servizi segreti in totale violazione delle procedure legali, condotte a Temara, interrogate e torturate per giorni e giorni prima di essere rilasciate senza accusa o presentate alla giustizia come animali al macello.
Ma gli islamisti non sono i soli (sebbene la maggior parte) ad aver subito i tormenti di questo luogo, spesso comparato al carcere iracheno di Abu Ghraib, di cui lo Stato continua a negare l’esistenza nonostante le innumerevoli testimonianze (vai al video-testimonianza pubblicato da Lakome) e le inchieste pubblicate in proposito dalle ong internazionali (vai al rapporto di Amnesty International) e locali. Nel documento datato giugno 2004, Amnesty ha raccolto quarantacinque deposizioni, di cui venti ben dettagliate, rilasciate dai detenuti stessi, dalle loro famiglie, dai loro avvocati e da altre organizzazioni marocchine (come l’AMDH) che avevano indagato su questi casi.
“I funzionari costringono i soggetti prelevati a salire a bordo delle autocivetta (proprio come succedeva negli anni settanta). A volte gli agenti della DST li maltrattano ancor prima di avergli bendato gli occhi e di averli condotti verso un luogo sconosciuto (…). Oltre alle sevizie che subiscono i detenuti, ci sono le minacce di ritorsioni sessuali sulle mogli fatte dagli aguzzini e la promessa di ripetere ai parenti gli abusi fisici di cui sono rimasti vittime sul posto (la più nota è la bottiglia di Coca-Cola infilata nell’ano, ndt)”, ha scritto l’ong, esortando il Marocco a “riconoscere le violazioni perpetrate dalla DST e a condurre un’inchiesta sull’operato dei singoli agenti”.
“Circa un anno prima degli eventi del 16 maggio 2003, l’opinione pubblica marocchina scopre che i sequestri (della polizia, ndt) e il fenomeno della detenzione arbitraria – ritenuti ormai superati – hanno fatto ritorno. E’ in questo contesto che si moltiplicano le testimonianze sull’esistenza di un particolare centro, diretto dalla DST e situato nella periferia di Rabat, più precisamente a Temara. Mentre sono organizzati dei pellegrinaggi simbolici verso i luoghi che erano serviti per gli internamenti clandestini (Tazmamart, Kalaat M’gouna, Agdez…) nei decenni precedenti, la scoperta provoca un vero choc, ancor più forte dal momento in cui questo luogo – dove si pratica la tortura – è stato sfruttato in maniera massiccia dopo gli attentati criminali di Casablanca”, ha riportato invece la FIDH (Federation International des Droits Humains) nel rapporto schiacciante pubblicato nel 2004.

La tortura “in subappalto”
Le vittime di Temara possono essere ripartite in quattro categorie: gli islamisti dell’area jihadista accusati di fomentare atti terroristici (o presunti tali, dal momento che molti detenuti islamici transitati per Temara nulla avevano a che fare con gruppi o organizzazioni estremiste, ndt), i prigionieri saharawi indipendentisti accusati di irredentismo, gli attivisti della sinistra radicale e un modesto numero di individui “consegnati” dalla Central Intelligence Agency (CIA) o dall’M15 britannico nel quadro del famoso programma americano di subappalto della tortura agli Stati alleati come il Marocco (extraordinary renditions – consegne speciali), poco scrupolosi nel rispetto dei diritti dei prigionieri durante gli interrogatori.
Per i due servizi appena citati, Temara è servita da base di appoggio nella “guerra contro il terrore” condotta dagli Stati Uniti di Bush Jr e da alcuni dei suoi fedeli come il Regno Unito. Questo significa che a Temara si è fatto ciò che le legislazioni occidentali non permettono in Europa o sul suolo americano per estirpare confessioni ai “combattenti di Al Qaida” catturati in Iraq, Pakistan o in Afghanistan.
Secondo un rapporto del Parlamento europeo incaricato dell’inchiesta sui voli segreti CIA in Europa, l’intelligence americana avrebbe effettuato circa quaranta scali in Marocco dal 2001. Mohamed Binyam, un inglese di origine etiope sospettato di terrorismo, è stato arrestato in Pakistan nel 2002 prima di essere condotto in Marocco con una extraordinary rendition e rinchiuso illegalmente a Temara per diciotto mesi. Primo detenuto della prigione americana di Guantanamo liberato sotto la presidenza Obama (2009) – dopo quattro anni di calvario, tutte le accuse di affiliazione terroristica a suo carico sono cadute di colpo – Binyam racconta il suo “soggiorno” a Temara. “E’ stata un’esperienza che mai avrei potuto immaginare, nemmeno nei miei incubi più tremendi (…). Non riesco ancora a credere di essere stato sequestrato, trasportato da un paese all’altro e torturato in modo barbaro, il tutto sotto la supervisione degli Stati Uniti”, dichiarava al rientro in Inghilterra. “Il momento peggiore è stato quando ho capito, mentre ero in Marocco, che i miei aguzzini stavano ricevendo indicazioni e documenti dai servizi inglesi”. Mohamed descrive poi il modo in cui i torturatori, servendosi di un coltello affilato, gli hanno inciso ripetutamente i genitali.

Rabat nega, sempre e comunque
Le sevizie condotte sotto la supervisione straniera, il ricorso ai “kapò” marocchini esperti in torture e maltrattamenti – come emerge dal racconto fatto da Mohamed Binyam all’associazione Reprieve (che fornisce supporto giuridico a numerosi detenuti di Guantanamo) – confermano che i carcerieri di Temara continuano ad agire nel quadro di un sistema detentivo fuorilegge, avviato in segreto dallo Stato marocchino con la benedizione dei suoi mentori americani e inglesi.
Nonostante un dossier ormai denso di prove e testimonianze Rabat, tramite il ministro dell’Interno Taieb Cherkaoui, insiste nel negare l’evidenza, smentendo le torture e l’esistenza stessa del sinistro luogo. Allo stesso tempo Mohammed VI, cedendo alle pressioni della piazza, ha concesso la grazia a numerosi detenuti politici, quegli stessi detenuti che, nella maggior parte dei casi, hanno avuto diritto al trattamento speciale riservato agli ospiti di Temara.

Veduta aerea del centro di Temara. Sul link a Demain on-line il filmato in dettaglio realizzato con Google Earth

L’Associated Press rivela l’esistenza di alcuni video che mostrano le torture inflitte ai detenuti in una prigione segreta marocchina

B. S., Demain on-line, 13 maggio 2011

La tortura non esiste in Marocco, ripetono a tamburo battente le autorità durante i discorsi ufficiali. Ma l’agenzia stampa americana Associated Press ha rivelato che la CIA è in possesso di due filmati registrati durante l’interrogatorio di un detenuto islamista in una prigione segreta marocchina. Il detenuto in questione non è una persona di poco conto. Si tratta dello yemenita Ramzi Ben Al Shibh, considerato dall’FBI un influente membro di Al Qaida, tesoriere dell’organizzazione e una delle menti degli attentati dell’11 settembre 2001. Prima di quella data, Al Shibh aveva provato a più riprese ad entrare nel territorio americano, ma tutte le richieste di visto gli erano state rifiutate. Nel settembre 2002 fu arrestato dopo uno scontro a fuoco con la polizia pachistana a Karachi e consegnato all’intelligence USA.
Da allora, si sapeva che Ramzi era entrato a far parte del gruppo dei “detenuti fantasma”, una trentina di prigionieri di grosso calibro riconducibili ad Al Qaida, che la CIA aveva affidato ad alcuni governi “amici” per poter essere “cucinati” dai loro servizi segreti. Non sapevamo, invece, che Ben Al Shibh era stato ospite della DST marocchina nella prigione segreta di Temara, dove con ogni probabilità ha subito maltrattamenti e sevizie per conto degli americani. Quest’ultimi, infatti, non potendo utilizzare certi metodi di interrogatorio considerati poco ortodossi oltre che illegali dal loro sistema giudiziario, hanno delegato lo sporco bisogno alla polizia politica dei paesi alleati. Come il Marocco, per esempio.
L’Associated Press racconta che nel 2005 la CIA aveva distrutto 92 video-testimonianze di tali “interrogatori estremi” a cui sono stati sottoposti i sospetti di Al Qaida in centri di detenzione stranieri. Si era sbarazzata dei filmati per poter negare qualsiasi complicità statunitense nelle torture inflitte a questi prigionieri. Ma uno scatolone contenente due video e una traccia audio è riuscito a scampare alla distruzione. Secondo l’AP, sarebbe stato ritrovato negli scantinati di un palazzo, base del contro-terrorismo promosso dall’intelligence USA. Una vera sfortuna per il Marocco, dato che il materiale riesumato riguarda proprio gli “interrogatori” di Ramzi Ben Al Shibh a Temara, distante solo pochi chilometri dalla capitale del regno alawita.
Ora che l’opinione pubblica è stata messa a conoscenza dell’esistenza di questi filmati e della traccia audio, il giudice federale americano, che qualche anno fa aveva ordinato il sequestro della documentazione sulle extraordinary renditions, rifiutata per la “non esistenza” del dossier richiesto, cercherà sicuramente di tornare alla carica. E il Marocco cosa farà? In ogni caso l’affaire Al Shibh è l’ennesima prova della persistenza di quelle pratiche disumane che alcuni, a Rabat, continuano ostinatamente a negare.


Mehdi Boukyou o la cronaca della “nuova era”

Aziz El Yaakoubi, Lakome, 22 aprile 2011

Un anno e due mesi di detenzione. Un anno e due mesi di lotta, per Mehdi Boukyou e sua madre. Entrambi dietro le sbarre, ognuno dalla sua parte. Lui in prigione, lei nella sofferenza quotidiana. Mehdi, un ragazzo di diciannove anni accusato di terrorismo e (tenetevi forte!) di “fabbricare un missile”, ha lasciato da poco la prigione di Salé. Anche grazie alle pressioni del Movimento 20 febbraio, come precisano Mehdi e la madre.
Boukyou ha accettato di testimoniare. La sua presenza è discreta, appena la si avverte nella sala. La madre, che ha combattuto accanitamente, contro tutto e tutti, per la sua liberazione, ne osserva anche il minimo gesto. Con voce fioca Mehdi inizia il suo racconto, una cronaca agghiacciante della “nuova era” dei diritti umani in Marocco. E’ una mattina ordinaria quando la famiglia Boukyou esce di casa per assolvere alle occupazioni quotidiane. “Era il novembre del 2009”, precisa il ragazzo. Il padre e la madre partono al lavoro, Mehdi e la sorella si dirigono verso la scuola. Alla fermata dell’autobus, arriva all’improvviso un compagno di università e lo saluta. “Lo avevo visto solo poche volte in Facoltà (Giurisprudenza), mi aveva detto che era uno studente e un funzionario allo stesso tempo”, aggiunge Mehdi.

Una pistola puntata alla testa
Il “compagno” si propone di accompagnarlo con la sua auto. Mehdi rifiuta, preferisce prendere l’autobus. In pochi secondi una macchina blu (Hyundai) si ferma davanti a loro. Due uomini a bordo. La porta si apre e il “compagno” spinge Mehdi dentro l’auto. Uno dei due passeggeri punta la sua pistola sulla testa del ragazzo e gli ordina di non gridare, mentre il “compagno” lo spinge sotto i sedili della macchina che riparte in velocità. Dopo dieci minuti (questa è l’impressione di Mehdi) si fermano e la “banda” lo fa scendere. Iniziano le prime sevizie: “uno dei rapitori mi ha preso a calci e mi ha obbligato a spogliarmi”.
Sbattuto contro il muro, Mehdi è completamente nudo. Le mani degli aguzzini arrivano dappertutto, non risparmiano nemmeno gli organi genitali. Viene bendato e costretto a camminare. “Ho fatto avanti e indietro per un’ora e mezzo, prima in un corridoio caldo e poi in uno gelido”. Suda, pur avendo il freddo nelle ossa. Inizia a tossire fino quasi all’asfissia.
Mehdi è rinchiuso in una stanza buia. Sente dei “clics”, capisce che si tratta di un fotografo. Poi cominciano gli interrogatori. Racconta tutta la sua vita nei minimi dettagli. Le canzoni e i film che gli piacciono di più. Il ragazzo non immagina nemmeno che il trattamento a cui è sottoposto gli sia inflitto dalla polizia di Mohammed VI. “Pensavo si trattasse di un’organizzazione criminale dedita al traffico di organi”, ricorda senza più stupore. Poi, quasi sorridendo, aggiunge: “ero sicuro che mi avrebbero drogato e che poi avrebbero preso tutto ciò che gli serviva”.

DST: La direzione degli abusi
E’ l’alba quando Mehdi non ce la fa più. Scoppia in lacrime e minaccia i suoi rapitori. Dice che sua madre non mollerà tanto facilmente e che avvertirà subito la polizia. L’idea stuzzica probabilmente la fantasia degli ispettori della DST, tanto che uno gli risponde: “siamo un’organizzazione internazionale molto potente. Resterai qui fino a che non farai quello tutto quello che vogliamo…”.
Mehdi Boukyou è rimasto per dieci giorni immerso nella completa oscurità, occhi bendati e manette ai polsi. Gli interrogatori non finiscono più. Squadre di ispettori si danno il cambio notte e giorno. Al mattino, le rare volte che riesce ad addormentarsi, viene svegliato a suon di schiaffi e minacce. In poco tempo Mehdi esplode una seconda volta in pianti e singhiozzi, non riesce nemmeno più a parlare. Uno dei suoi guardiani gli consiglia di pregare per calmarsi. Gli insegna perfino come fare le abluzioni e la preghiera. “Prega anche per noi”, gli ricorda il suo consigliere… Saprà solo più tardi, in prigione, raccontando la sua storia ad altri detenuti, di essere transitato per l’ormai celebre centro di tortura di Temara, la sede della DST.
Il decimo giorno, Mehdi viene trasferito da un’altra parte, a circa un’ora di distanza (sempre in base alle sue stime). La benda non è troppo stretta. Riesce a vedere un agente in uniforme che va e viene verso di lui e capisce di essere arrivato in un commissariato marocchino. Viene rinchiuso in uno “scantinato puzzolente” assieme ad altri prigionieri. Mehdi, già afflitto da gravi problemi respiratori, perde conoscenza più volte in questo luogo nauseabondo.

Twin-center
Di seguito il trasferimento all’ospedale. Durante il viaggio di ritorno, riconosce il boulevard Zerktouni di Casablanca e le sue “torri gemelle” (il Twin-center marocchino). Il dottore sostiene che Mehdi ha bisogno di sole e di aria fresca. Invece viene gettato di nuovo nella stessa cella. Un mattino lo svegliano a pedate e insulti e lo fanno salire a piano terra. Un ispettore – “nervoso, che fuma come una ciminiera” – gli domanda di firmare delle carte. Tolta la benda, Mehdi può scorgere l’orologio del poliziotto: sono le quattro e mezzo del mattino. “Faceva talmente freddo che non riuscivo a tenere la penna in mano”.
Di buon mattino, il ragazzo si ritrova nei corridoi di un’altra amministrazione marocchina. Una porta si apre e Mehdi entra in una grande sala climatizzata. Più tardi saprà che si tratta dell’ufficio di Abdelkader Chentouf, giudice d’istruzione, incaricato delle inchieste di terrorismo presso la corte penale di Salé. Mehdi piange e fa fatica a rispondere. Il giudice è in imbarazzo e comunica all’ispettore che non può ascoltare il sospetto in queste condizioni. “Per favore, faccia con quello che ha”, risponde in dialetto il funzionario. La segretaria del magistrato porge allora al diciannovenne impaurito una penna e un foglio in bianco con impressi i sigilli del Ministero della Giustizia. La donna gli consiglia di firmare, se vuole rivedere presto la sua mamma. E’ la prima e l’ultima volta che Mehdi vede il giudice di istruzione. Dopo questa fugace apparizione, viene ufficialmente incarcerato nella prigione di Salé.

Un missile?
Il giorno del processo, il giovane Mehdi Boukyou scopre finalmente le accuse che gli sono mosse dalla Procura del regno: “è membro di un’organizzazione terrorista che ha cercato di fabbricare un missile Al Qassam per compiere attacchi criminali”. Le prove? Si sarebbe collegato con il suo computer ad un sito sospetto: www.exact.com. “Mai una domanda, durante gli interrogatori, mi era stata posta a questo proposito”, chiarisce il ragazzo, sotto lo sguardo tenero della madre. Il giudice ha condannato Mehdi a quattro anni di carcere. Liberato il 14 aprile scorso (in seguito alla grazia reale), il diciannovenne pensa già all’avvenire. Vuole diventare un magistrato….forse per evitare ai suoi figli di subire la stessa sorte?


LA TESTIMONIANZA

Kassim Britel, cittadino italiano di origine marocchina, è una delle tante vittime delle extraordinary renditions americane. Tra il 2002 e il 2003 ha trascorso dodici mesi all’interno del centro di Temara, prima di essere trasferito nella prigione di Salé e condannato a nove anni (in appello, quindici in primo grado) per concorso in attività terroristiche, in seguito ad un processo giudicato iniquo dalle ong per i diritti umani marocchine e internazionali. Kassim è uscito dal carcere lo scorso 14 aprile ed è rientrato a casa (a Bergamo) assieme alla moglie Khadija, dopo aver beneficiato di un provvedimento di grazia. Di seguito un estratto dell’intervista rilasciata a (r)umori dal Mediterraneo (grazie ad un telefono nascosto all’interno della prigione di Oukasha, Casablanca) il 21 novembre 2009.

Anche lei, come centinaia di detenuti islamici marocchini, è stato condotto nel centro di detenzione segreto di Temara?
Appena atterrato in Marocco, sono stato trasferito direttamente a Temara. Ci sono rimasto per otto mesi, la prima volta. Le condizioni erano durissime. Non potevo ricevere visite, anche perché nessun familiare era informato della presenza di prigionieri in quel luogo. In quei mesi le autorità marocchine hanno sempre negato che mi trovassi lì. Non erano previste cure mediche, niente libri, riviste, orologi, nessun vestito di ricambio, niente sapone per lavarsi, niente spazzolino, acqua calda, le luci restavano accese tutta la notte. Ogni momento trascorso là dentro è stata una sofferenza, mancavano le condizioni minime per definirsi ancora uomini. Le torture non erano solo fisiche, ma anche psicologiche.
(…)
Cosa è successo durante il suo secondo passaggio nel centro di Temara?
La seconda volta che sono stato portato a Temara, le torture sono ricominciate ad un ritmo ancora più intenso. L'obiettivo era ottenere una mia confessione sul coinvolgimento in attività terroristiche. Mi hanno fatto firmare un foglio senza mettermi a conoscenza del suo contenuto. Se si presenta all’AMDH, vedrà che hanno un fascicolo sui detenuti islamici e in quel fascicolo c’è scritto che le torture subite dai prigionieri a Temara servono ad estorcere una confessione. La polizia ha ottenuto i suoi verbali in modo illegale, violando i diritti umani dei detenuti, che in quel momento non erano niente più che dei sospetti. Per registrare una deposizione, in ogni caso, si dovrebbe essere condotti nei locali della polizia giudiziaria, non in un centro di detenzione segreto gestito dalla DST. Il giudice istruttore, prima del processo, dovrebbe accertare la regolarità di questa procedura. Non auguro a nessuno di subire il trattamento che ho ricevuto. Già le torture subite in Pakistan mi avevano lasciato tracce per diversi mesi sul corpo. I segni delle ulteriori sevizie patite in Marocco sono ancora qui, sulla mia pelle, ma ancora più dolorosi sono quelli che restano impressi nella mente.

Aggiornamento, 20 maggio 2011


Nella foto, la pag. 3 del quotidiano arabofono Attajdid (organo del PJD, formazione islamica moderata), edizione 20/22 maggio 2011. In evidenza il racconto di Moussadek Benkhadra, rinchiuso nel centro di Temara nel 1995. Benkhadra, rimasto per otto anni all'interno della prigione, ha fornito una mappa dettagliata dei sotterranei del luogo, specificando il numero e la disposizione delle celle, il posizionamento delle stanze riservate agli interrogatori e delle camere di tortura.
Il Procuratore del re, invece, dopo la visita al centro effettuata nei giorni scorsi, ha ribadito che "Temara è soltanto una sede amministrativa", pertanto nessun crimine o violazione viene commessa al suo interno. Misteriosamente, i detenuti islamici che avevano denunciato attraverso video e dichiarazioni le torture subite durante il loro passaggio nella sede della DST sono scomparsi dalle prigioni. E' questo il prezzo per chi non si accontanta della "versione ufficiale"?

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