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sabato 19 marzo 2011

“Un’opportunità storica per tutti i democratici marocchini”

Il Marocco si prepara a vivere una nuova giornata di mobilitazione nazionale. Il Movimento 20 febbraio ha indetto manifestazioni e sit-in in tutto il territorio per domenica 20 marzo, ribattezzato “giorno della dignità”. I giovani dissidenti e le organizzazioni che lo sostengono (riunite nel Consiglio nazionale di appoggio al movimento – CNAM) hanno rifiutato le aperture fatte la settimana scorsa dal sovrano Mohammed VI, che in un discorso alla nazione aveva annunciato la designazione di una commissione per la riforma della costituzione, seguite poi dalle voci di un’imminente liberazione di alcuni detenuti politici.



“In questo momento il paese ha bisogno di risposte concrete e di cambiamenti profondi, non di annunci sensazionalistici e di risultati minimi che non intaccano la sostanza del regime”, ha dichiarato in proposito Rachid Raha, editore della rivista mensile Le monde amazigh, oltre che fondatore ed attuale vice-presidente del Congresso mondiale amazigh (il CMA ha contribuito alle sessioni della Conferenza ONU sul razzismo e le discriminazioni tenutasi a Ginevra nel 2009). Raha è uno dei portavoce più autorevoli del movimento amazigh marocchino, le cui associazioni da oltre quindici anni partecipano ai lavori del Congresso (focalizzati sulla difesa dei diritti e dell’identità dei popoli berberi) assieme ai rappresentanti delle compagini algerine, tunisine, tuareg, canarie e alle organizzazioni dei berberi della diaspora. (r)umori dal Mediterraneo l’ha incontrato nei locali della redazione di Le monde amazigh per saperne di più sul rapporto che unisce la sua organizzazione (e più in generale il movimento amazigh) ai giovani del “20 febbraio” e sulle rivendicazioni che hanno spinto i militanti amazigh e gli abitanti delle regioni a maggioranza berberofona ad aderire in massa alle mobilitazioni che hanno scosso il regno alawita nelle ultime settimane.

Rachid Raha nella redazione di Le monde amazigh

Intervista a Rachid Raha (Rabat, 16 marzo 2011)

Quale rapporto lega il movimento amazigh ai giovani del “20 febbraio”?
Il Movimento 20 febbraio è frutto, tra le altre cose, del contribuito apportato fin da subito da numerosi attivisti amazigh, sparsi in tutto il territorio nazionale, che hanno saputo cogliere l’importanza dell’iniziativa e della congiuntura storica che stiamo vivendo. Quanto al movimento berbero in sé, condivide le rivendicazioni presentate dal “20 febbraio” al cento per cento e sostiene le sue azioni, partecipando direttamente e facendo opera di sensibilizzazione attraverso i suoi canali associativi. Non è un caso se all’appello del 20 febbraio gli abitanti delle regioni berberofone (Rif, Atlante, Orientale e Souss) hanno risposto in massa. Solo ad Al Hoceima (città di riferimento degli imazighen del Rif) sono scese in strada 35 mila persone il primo giorno di mobilitazione e la città, assieme ai villaggi circostanti, è da allora in continuo fermento nonostante la repressione violenta innescata dalle autorità. In più il Congresso Mondiale Amazigh (leggi il comunicato on-line), e la rete di associazioni di cui si fa portavoce, è membro del Consiglio nazionale di appoggio al Movimento 20 febbraio (CNAM), che raccoglie ormai ottantadue organizzazioni. Una sorta di comitato dei democratici marocchini dove la componente berbera siede al fianco dei difensori dei diritti umani, degli islamici e della sinistra radicale.

Siete dunque riusciti a superare le vecchie rivalità, che durante gli ultimi due decenni hanno opposto nei campus universitari e nei dibattiti pubblici gli attivisti amazigh a quelli islamici e ai militanti della sinistra detta “nasseriana”?
Sì, per tutti noi democratici è un’opportunità storica. Siamo coscienti che la nostra unione, la nostra alleanza, potrà finalmente riuscire a cambiare un regime impostato da cinquant’anni su basi tradizionali e assolutiste. Ogni componente del movimento, quella amazigh, quella islamica e la sinistra panaraba, ha rinunciato ai particolarismi che l’avevano contraddistinta fino a questo momento, creando divisione e contrasti, per incontrarsi in un terreno comune, per riunirsi sotto un comune denominatore quale è la lotta per uno Stato democratico. Uno Stato che riconosca la sovranità popolare, che sia finalmente il prodotto della volontà dei suoi cittadini e non delle decisioni del suo “rappresentante supremo” o di una ristretta cerchia di Palazzo.
Bisogna riconoscere che queste tre tendenze sono ora al momento le vere forze di mobilitazione sociale presenti nel paese, sono la base sociale e ideologica che sta spingendo verso il cambiamento. Prendiamo il caso degli islamisti. In Marocco le forze islamiste (il riferimento è alla gioventù del PJD ma soprattutto all’associazione Giustizia e Carità non riconosciuta dal regime, ndr) sono organizzazioni dichiaratamente pacifiche, che mai hanno optato per la violenza come strategia di confronto con il regime, nonostante la politica di repressione adottata dalle autorità nei loro confronti abbia potuto incentivarli in questo senso. Non sono mai cadute in questa trappola, un dato che denota la loro maturità e la serietà delle loro posizioni, che legittima la loro implicazione nel fronte democratico e la loro partecipazione al dibattito sul Marocco del futuro.

Cosa pensa delle dichiarazioni ufficiali del regime che ha attribuito all’associazione Giustizia e Carità la responsabilità delle violenze avvenute negli ultimi giorni a Casablanca e a Khouribga*?
E’ l’ennesima trappola con cui le autorità cercano di provocare la radicalizzazione del movimento (o di una sua componente). L’obiettivo è quello di dividere il fronte democratico e allo stesso tempo giustificare la repressione violenta e brutale operata dalle forze dell’ordine. Inoltre credo che questa strategia, martirizzare gli islamisti (presenti solo in minima parte a Casablanca ed estranei agli scontri di Khouribga) sperando di far paura alla popolazione, abbia già mostrato i suoi limiti dopo gli attentati di Casablanca del 16 maggio e sia addirittura controproducente, come dimostra la recente storia algerina e il sostegno ottenuto del FIS tra la fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta. Un simile atteggiamento da parte del regime mi porta a pensare che la monarchia non abbia preso troppo sul serio le dimostrazioni del 20 febbraio e quelle che seguiranno a breve, oppure che si stia già preparando allo scontro frontale. Quanto visto domenica scorsa a Casablanca contraddice in pieno lo spirito di fondo del discorso pronunciato dal re solo qualche giorno prima e reitera l’immagine di un regime che i marocchini non sono più disposti ad accettare.

Dividere l’opposizione per mantenere ben saldo il controllo. Un episodio già visto nella storia del Marocco post-indipendenza, non le pare?
Già, a questo proposito ho pubblicato un articolo nel giornale Le monde amazigh il mese scorso dal titolo “Dalla divisione nasce l’unione” (Le monde amazigh, n. 128, fevrier 2011, p. 1): “Il makhzen, sistema politico tradizionale che si maschera sotto una illusoria facciata di modernità, non ha fatto altro che perpetuare la tattica preconizzata dai romani e fatta propria dai colonizzatori francesi: dividere per regnare”, ho scritto nel mio editoriale. La monarchia, una volta imposto il suo controllo sul nuovo Stato, ha continuato la politica adottata dalla Francia durante il protettorato: ha seguito il precetto dei nostri primi conquistatori, “dividi et impera”, ha indebolito le opposizioni, dividendole, per continuare a regnare e governare. Così ha decostruito il movimento nazionale che aveva combattuto per l’indipendenza del paese, prima innescando la rottura tra nazionalisti e socialisti, poi continuando a seminare contrasti e divisioni all’interno delle due componenti, che si sono scisse in una costellazione di forze politiche miopi e rancorose, anche se ideologicamente simili, a mano a mano inglobate negli ingranaggi del potere per disinnescarne il potenziale sovversivo. Lo Stato spende capitali importanti per mantenere questa strategia, alimentando il clientelismo politico e la corruzione, invece di investirli in progetti di sviluppo o nel potenziamento dei servizi scolastici e sanitari nelle regioni marginalizzate. I giovani del “20 febbraio” si sono dimostrati più maturi e consapevoli dei vecchi militanti ed hanno saputo trascinare dietro di loro tutte le forze democratiche, che finalmente sono uscite dagli ingranaggi della strategia di regime, superando le divisioni sterili e dando vita ad un movimento di portata sicuramente rivoluzionaria. Per questo, ribadisco, siamo di fronte ad un momento storico. Ormai il confronto è aperto e ben delineato tra coloro che accettano di rimanere sottomessi, di continuare il “baciamano” e gli inchini, di sottostare a delle tradizioni medievali e coloro che aspirano ad essere dei cittadini liberi, uguali, in grado di decidere il proprio destino e di avere voce in capitolo sulla gestione delle ricchezze del paese.

La redistribuzione e la gestione partecipativa della ricchezza nazionale è una delle rivendicazioni che più accomunano gli attivisti del “20 febbraio” al movimento amazigh…
I giovani del “20 febbraio” hanno subito denunciato la corruzione e il clientelismo delle alte sfere di potere, l’impunità dei clan familiari che controllano l’economia marocchina. Noi militanti amazigh lo facevamo già da tempo, abbiamo sempre condannato la cancrena dei Fassi (un insieme di famiglie di origine arabo-andalusa insediatisi a partire dal IX secolo d. C. nella città di Fes, equiparabili alla “classe nobile” presente nelle società pre-rivoluzione industriale, ndr) che monopolizzano la rappresentanza politica e i posti chiave nella gestione del paese fin dall’indipendenza.
Gli imazighen (plurale di amazigh, ndr) sono stati spogliati delle loro risorse, sono stati privati del controllo delle ricchezze presenti nelle loro regioni, accaparrate dalle società dei clan al potere, con le quali avrebbero potuto contribuire allo sviluppo socio-economico delle loro realtà, abbandonate e dimenticate da chi ha diretto il nostro paese fino ad ora. Le faccio degli esempi: le miniere d’oro di Tafraout, le miniere di argento nel Medio Atlante, quelle di carbone a Jerada, le foreste di cedri ad Anfgou, Tounfit e Khenifra, i cui proventi finiscono nelle casse dello Stato, senza essere reinvestiti in loco, e nelle mani dei baroni con cui le amministrazioni locali (dipendenti dal Ministero dell’Interno) fanno affari. Su questo punto, la legge sul potenziamento delle regioni di cui ha parlato Mohammed VI nel suo discorso (9 marzo 2011, ndr) non apporta nessun passo in avanti e nessuna garanzia.

Se ho ben capito, lei sostiene che gli imazighen sono tuttora discriminati ed esclusi da un’elite (essenzialmente dei Fassi) che si appropria delle posizioni migliori, sia in campo politico che economico?
Si, assolutamente. L’economia nazionale deve molto al contributo dei berberi, ma questi non hanno di fatto accesso a nessun posto-chiave nelle alte rappresentanze politiche, dominate dalle famiglie Fassi (attualmente quattro ministri, tra cui il premier, ndr) e dall’élite che ruota attorno al Palazzo. Per esempio, le rimesse dei migranti costituiscono la prima risorsa delle entrate nazionali. Ora, i marocchini della diaspora provengono essenzialmente dalle regioni definite “berberofone”, dove le difficili condizioni di vita li hanno costretti a partire e cercare fortuna altrove, nelle grandi città del regno ma soprattutto all’estero. A Casablanca quasi tutte le attività commerciali, dalle piccole fino alle grandi, sono gestite da imazighen. Altro esempio all’apparenza banale, le lavanderie, le stirerie e i commerci al dettaglio della città sono in mano alle famiglie berbere immigrate dal Souss. Perfino nell’esercito e nella polizia gli imazighen non rivestono posizioni di comando, epurati dopo i colpi di Stato tentati nel 1971 e nel 1972. Tutto ciò per sottolineare la profonda anomalia che caratterizza questo paese, dove chi partecipa attivamente all’economia nazionale, chi è presente con vitalità nei settori produttivi, continua a vedersi escluso da incarichi di responsabilità, monopolizzati da una ristretta minoranza. Lo smantellamento del sistema di potere monolitico incarnato dal makhzen, al centro delle rivendicazioni del “20 febbraio”, va incontro anche a queste prerogative, essenziali perché il cambiamento sia profondo e strutturale.

Quali altre rivendicazioni, già proprie del movimento amazigh, sono presenti nella piattaforma del “20 febbraio”?
Prima di tutto la redazione di una nuova carta costituzionale, emanazione della volontà popolare e non di una concessione reale, che fornisca la base legale per l’instaurazione di una monarchia parlamentare, all’europea per intenderci, dove il sovrano regna ma non governa. Una nuova costituzione che includa il riconoscimento della lingua e della cultura amazigh come elemento imprescindibile dell’identità nazionale. Poi, come già accennato poc’anzi, la redistribuzione delle ricchezze del paese, maggiori investimenti nel settore della sanità e dell’istruzione, la fine dell’apparato di controllo centralizzato e la realizzazione di un impianto di autonomie regionali con rappresentanze elette, oltre a funzioni esecutive e legislative sul territorio di competenza.
Infine, la dissoluzione del parlamento e del governo in carica, dal momento che non sono rappresentativi del popolo marocchino in generale né di quello amazigh in particolare. Alle ultime elezioni politiche, nel 2007, ha votato solamente un quinto degli aventi diritto nonostante Mohammed VI, rappresentante supremo della nazione, capo dello Stato e del governo, comandante dei credenti e tutto il resto, avesse espressamente chiesto alla popolazione di partecipare all’appuntamento elettorale. Ma la netta maggioranza dei marocchini ha detto no, poiché non ha voluto legittimare con il suo voto un sistema politico marcio. Deve sapere che nella camera alta come in quella bassa siedono tuttora dei narcotrafficanti (di cui non posso fare i nomi), che ad ogni elezione comprano impunemente i loro consensi.

Se non sbaglio, le tre forze di mobilitazione sociale che chiamarono al boicottaggio delle elezioni nel 2007 sono le stesse che hanno sostenuto fin dall’inizio il Movimento 20 febbraio?
Esatto, il movimento amazigh, come pure l’associazione islamica Giustizia e Carità e i partiti della sinistra radicale (esclusi dal parlamento ma presenti in forza nelle università) sostennero il boicottaggio. Guarda caso stiamo parlando delle tre “anime democratiche” che adesso lottano fianco a fianco.

Qual è stata, nello specifico, la reazione del movimento amazigh al discorso del sovrano?
Il Congresso Mondiale Amazigh ha reagito al discorso del sovrano e alle sue promesse di revisione della costituzione con un comunicato ufficiale. Le nostre rivendicazioni (in generale quelle del Movimento 20 febbraio) sono rimaste nella maggior parte dei casi inascoltate. Non nego lo spirito di apertura e l’importanza del discorso in sé, ma in questo momento il paese ha bisogno di risposte concrete e di cambiamenti profondi, non di annunci sensazionalistici e di risultati minimi che non intaccano la sostanza del regime.
Entriamo nello specifico. Il discorso del 9 marzo non affronta la questione del monopolio economico perpetrato, in assenza delle minime regole di trasparenza, dall’entourage di Palazzo e dal monarca stesso. Parla di costituzionalizzazione della lingua amazigh senza chiarire quale statuto le verrà attribuito, mentre il movimento berbero è preciso su questo punto: vogliamo che il tamazight (la lingua berbera, ndr) sia riconosciuto come lingua ufficiale, la cui presenza deve essere obbligatoria nei media, nell’istruzione e nelle amministrazioni, cosicché anche le popolazioni esclusivamente berberofone possano capire il linguaggio dello Stato e di chi li governa. C’è poi la questione dei prigionieri politici, di cui si domanda l’immediata liberazione. E’ il caso dei due studenti universitari arrestati nel 2007 a Meknes e condannati per omicidio in assenza di prove e di Chakib El Khiyari, presidente dell’Associazione rifegna per i diritti umani, finito in carcere dopo aver collaborato con alcuni giornalisti stranieri e aver denunciato la complicità dei narcotrafficanti di Nador con le autorità locali e con i politici eletti.
Infine, nel discorso viene annunciata l’adozione delle raccomandazioni dell’IER, l’Istanza di equità e riconciliazione nazionale che ha esaminato le violazioni e i crimini commessi sotto Hassan II. Tuttavia, nel caso della popolazione amazigh questa riconciliazione non è mai avvenuta, dal momento che sono state omesse dal rapporto dell’IER le repressioni sanguinose operate dall’esercito nel Rif (1958-’59, al tempo Moulay Hassan – futuro Hassan II – era già Capo delle forze armate), in cui venne utilizzato il napalm contro i civili, e nel Medio Atlante (1973), dove un gruppo estrema sinistra avviò delle operazioni di guerriglia e a farne le spese fu in gran parte la popolazione locale. Questi episodi non vengono menzionati nel rapporto dell’IER, nessuna verità è stata accertata e nessuna riparazione elargita.

Quindi le parole di Mohammed VI non sono sufficienti a placare gli animi dei militanti amazigh…
No non sono sufficienti, soprattutto in un contesto come quello attuale, dove gli imazighen come la gran parte dei marocchini reclama uguaglianza e diritti veri. Se il sovrano volesse inviare un segnale forte, dovrebbe rinunciare immediatamente al baciamano e alla ba’ya, il giuramento di sottomissione da prestare al monarca. Questo rituale è lì a ricordarci che siamo sudditi e non cittadini. In ogni caso, al di là delle valutazioni ipotetiche, la gente crede a quello che vede e a quello che vive sulla propria pelle. In questo senso il messaggio lanciato a colpi di manganello domenica scorsa è molto più forte delle parole pronunciate da Mohammed VI il 9 marzo. Un motivo in più per scendere in piazza domenica prossima (20 marzo, ndr) e per mettere il regime con le spalle al muro.


* Martedì 15 marzo, alle prime luci del mattino, il sit-in allestito di fronte agli uffici dell’OCP (Office Cherifien des Phosfates) di Khouribga, l’azienda statale che si occupa dell’estrazione e del trattamento del minerale, è stato represso brutalmente dalle forze dell’ordine. I manifestanti, giovani provenienti dai villaggi circostanti (la città è situata tra la costa atlantica e il Medio Atlante), avevano predisposto l’accampamento due mesi fa, per reclamare il loro diritto ad essere assunti (la legge garantisce il 70% dei posti ai nativi della regione e ai figli dei pensionati dell’azienda). “Sono settimane che questi ragazzi stanno là, assieme alle loro famiglie, per chiedere un’assunzione legittima, che spetta di diritto agli abitanti della regione espropriati dall’OCP al tempo dell’apertura delle miniere. Stamattina sono stati attaccati con violenza, senza alcun motivo apparente, dalla polizia che ha picchiato anche le donne e i bambini presenti nel campo”, dichiarava a Lakome.com Mohamed Fekkak, responsabile dell’AMDH di Khouribga. A fine giornata, dopo che gli scontri si erano estesi a diversi quartieri della città, il bilancio ufficiale parlava di decine di feriti e di cinque persone finite in arresto.
Le autorità hanno attribuito la responsabilità delle violenze ai militanti dell’associazione islamica Giustizia e Carità, per altro completamente estranei alla vicenda. Immediata la reazione dell’organizzazione, che attraverso il suo portavoce Fathallah Arsalane ha dichiarato a Lakome: “Le accuse mosse contro il nostro movimento, a Casablanca come a Khouribga, dimostrano il fallimento dello Stato nella risoluzione dei problemi dei cittadini”. Arsalane ha liquidato queste insinuazioni come “irresponsabili” e ha ricordato che Ben Ali e Mubarak avevano agito nella stessa maniera, per seminare la paura tra la popolazione e distoglierla dai problemi reali. “Tutti sanno che il nostro movimento è contro la violenza. Le accuse delle autorità servono solo a giustificare la repressione. Dal 20 febbraio partecipiamo alle manifestazioni al fianco di tutte le forze popolari e politiche che hanno aderito alle rivendicazioni. Non siamo che una piccola parte di un grande popolo che domanda giustizia e dignità”, ha concluso il dirigente islamista.
Secondo alcune indiscrezioni circolate in rete, il sit-in dei giovani disoccupati di Khouribga sarebbe stato attaccato dagli agenti, giunti in massa durante la notte tra lunedì e martedì scorso, per sgomberare l’assembramento dei “mendicanti” in vista del passaggio della principessa Mina, chiamata a presenziare l’inaugurazione di una manifestazione equestre nella zona.

1 commento:

Anita ha detto...

Bellissima intervista jacopo, complimenti...!
ciao,Anita