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martedì 1 febbraio 2011

“Per ventuno anni ho smesso di essere un uomo”

TUNISI – L’appuntamento è fissato per le 15:30 ad Ariana, un sobborgo a nord-est di Tunisi dall’aspetto popolare e leggermente decadente. La voce di Leila è inquieta, riattacca bruscamente il telefono appena capisce che sono arrivato a destinazione. Sceso dal taxi mi trovo la sua macchina di fronte, lei fa un gesto con la mano e mi invita a salire.
Leila è la sorella minore di Samir Ben Alaya, un militante di Annadha rimasto per ventuno anni nascosto in un rifugio sotterraneo nella regione di El Kef. Nonostante le aperture fatte dal governo provvisorio al partito islamico e a tutte le opposizioni non riconosciute dal vecchio regime, Laila non è tranquilla e preferisce non correre rischi. “Io non faccio parte del movimento – chiarisce subito la donna, sulla quarantina – rispetto mio fratello e i suoi compagni che hanno fatto la prigione e che hanno subito la repressione, ma mi considero assolutamente laica e lontana dalla loro ideologia”. Laila gira a vuoto per una ventina di minuti, prima di imbucare una stradina laterale. Il sentiero oltrepassa gli ultimi palazzi della città e va a morire in uno spiazzo isolato, nascosto dietro alcuni olivi che lo separano dai caseggiati grigi in vago stile sovietico. Samir ci sta aspettando. Seduto su una grossa pietra, assapora la sua sigaretta lentamente.



Intervista a Samir Ben Alaya (Tunisi, 28 gennaio 2011)

Jacopo Granci: Samir per prima cosa vorrei un chiarimento. Perché tutte queste precauzioni? Lei è ormai un uomo libero.
Samir Ben Alaya: Così sembra, in realtà fatico ancora a crederlo e non riesco ad abbandonare le vecchie abitudini. Inoltre la legalizzazione del partito, anche se più volte annunciata, non è ancora arrivata. Io resto formalmente un ricercato.

J. G.: Da quanto tempo ha lasciato il suo rifugio?
S. B. A.: Sono uscito dal sotterraneo in cui ero nascosto il 22 gennaio scorso, dopo ventuno anni e due mesi di clandestinità. Ma la mia storia di perseguitato politico inizia un po’ prima…

J. G.: Allora cominciamo dall’inizio.
S. B. A.: Il primo contatto con la polizia politica del regime l’ho avuto nel 1984, l’anno in cui è scoppiata la “rivolta del pane” in tutto il paese. Quando sono stato arrestato ero già membro del Movimento di Tendenza Islamica (MTI), il padre di Annadha, e partecipavo alle riunioni del gruppo di El Kef. Avevo offerto uno yogurt ad alcune ragazze che portavano il velo e mi ero fermato a parlare un po’ con loro. Gli agenti le hanno interrogate e poi sono venuti a prendermi. Evidentemente erano già sulle mie tracce e cercavano un pretesto. Mi hanno tenuto in commissariato una decina di giorni, mi hanno picchiato e poi rilasciato perché non avevano abbastanza elementi per accusarmi.
Da quel momento tutti in città hanno saputo della mia affiliazione al movimento. Sono iniziati i controlli e i pedinamenti. Nel 1986 mi hanno arrestato per la seconda volta, mentre ero in compagnia di un grande leader del movimento che avevo incontrato clandestinamente nella casa di un amico. In prigione sono stato torturato, poi condannato a sei mesi di carcere assieme ad altri tre compagni con l’accusa di “adesione ad un partito illegale”. Al tempo ero infermiere nell’ospedale della città. Dopo la condanna sono stato cacciato dal lavoro.

J. G.: Lei ha parlato di tortura, può essere più preciso?
S. B. A.: La tortura è una pratica corrente nel nostro paese, utilizzata prima da Bourghiba e poi da Ben Ali. Era la norma per chi veniva trasferito in un locale di polizia con il sospetto di appartenere ad un movimento politico non riconosciuto, tanto islamista quanto di sinistra. La polizia politica si incaricava del lavoro sporco: la simulazione di annegamento, il passaggio della corrente elettrica sul corpo e in particolare sui testicoli, le ustioni al torace. Ogni tanto qualcuno non ce la faceva a resistere, nonostante fosse sempre presente un dottore per assicurarsi che il prigioniero rimanesse in vita.

J. G.: Quanti membri contava all’epoca l’MTI nella sua città?
S. B. A.: A El Kef c’erano al tempo circa cinquecento attivisti. A questi bisognava aggiungere i simpatizzanti, quelli che pur non partecipando agli incontri e non impegnandosi direttamente nella propaganda clandestina, condividevano le nostre idee e ci davano aiuto logistico. In tutto due o tre mila, molti per una città piccola come El Kef.

J. G.: Cosa ha fatto dopo essere uscito di prigione?
S. B. A.: Ero senza lavoro, così mi sono appoggiato alla rete del nostro movimento e ho lasciato El Kef per raggiungere la capitale. Era l’inizio del 1987, pochi mesi prima della destituzione di Bourghiba. Il vecchio presidente aveva dichiarato guerra aperta all’MTI. Si sentiva debole e minacciato. In quel periodo erano frequenti gli scontri tra i nostri militanti e la polizia, in tutto il paese. Sono scappato dalla mia città assieme ad altri compagni per sfuggire alla morsa sempre più soffocante del regime. Ma non è bastato, siamo stati arrestati tutti durante una manifestazione e trasferiti a Bushusha, un centro di detenzione divenuto celebre per le torture e i trattamenti inumani riservati ai prigionieri politici che in quel periodo ne affollavano i locali. Bushsusha resta tuttora uno dei simboli della dittatura, della violenza e delle atrocità commesse contro gli oppositori, sia sotto Bourghiba che sotto Ben Ali.

J. G.: E’ stato nuovamente torturato?
S. B. A.: Per mia fortuna uno dei poliziotti che ci sorvegliava nel centro di detenzione era un kefois. Si dimostrò solidale e decise di aiutarmi. “Anche io, come te, vengo da El Kef – mi disse – cercherò di darti una mano”. Mi ha risparmiato le torture e mi ha fatto uscire dopo un mese, firmando un verbale di non colpevolezza. Resto ancora impressionato dal suo gesto. Non posso che ricordarlo con affetto, nonostante fosse implicato nelle sevizie a cui erano sottoposti ogni giorno centinaia di miei compagni.

J. G.: I rapporti tra l’MTI e il regime sono cambiati con la destituzione di Bourghiba?
S. B. A.: Subito dopo il colpo di stato di Ben Ali si respirava un’aria di distensione, di apertura verso tutte le opposizioni, islamica e di sinistra. Io ne approfittai per rientrare a El Kef. Il nostro leader, Rachid Ghannouchi, fu perfino invitato ad un colloquio privato con il nuovo presidente. Venne proclamata un’amnistia, accompagnata da tante belle promesse. In realtà ci aspettavano anni ancor più terribili. In un primo tempo il regime accettò di legalizzare il nostro movimento, ma per poter essere riconosciuti come partito politico dovevamo rinunciare all’appellativo “tendenza islamica” (la legge tunisina vieta la formazione di partiti a carattere religioso, ndr). Così nel 1988 l’MTI si è trasformato in Annadha, che in arabo significa “la rinascita”. Annadha ha partecipato alle elezioni legislative del 1989, con propri candidati ufficiali e con l’appoggio di candidati indipendenti, ma il regime, quando si accorse che avremmo vinto, ha invalidato le elezioni. Ben Ali, vista la nostra forza, ha avuto paura. Da quel momento è iniziata una nuova fase di repressione nei nostri confronti, una vera caccia all’islamista assecondata da gran parte dell’opposizione di sinistra, che ha poi portato alla condanna e alla dissoluzione ufficiale del partito nel 1991.

J. G.: E’ in questo momento che ha deciso di entrare in clandestinità?
S. B. A.: La mia è stata una scelta obbligata. Il 22 dicembre 1989 le autorità hanno emesso un nuovo mandato di arresto nei miei confronti per aver distribuito volantini di propaganda. Lo facevamo di nascosto, di notte, lasciandoli sotto le porte. Cercavamo di spiegare alla gente il nostro punto di vista, il nostro pensiero, dato che ci era impedito di farlo pubblicamente. Da quel momento sono entrato in clandestinità, ho fatto perdere le mie tracce. Se avessi fatto diversamente sarei ancora in prigione. In totale, sommando i differenti processi in cui sono stato coinvolto tra il 1989 e i primi anni novanta, ho accumulato una condanna a più di venti anni di carcere.

J. G.: Come valuta oggi la sua scelta?
S. B. A.: La scelta della clandestinità mi ha permesso di evitare la prigione, le torture, ma allo stesso tempo mi ha privato della dignità. Come le ho detto, sono rimasto nascosto per ventuno anni e due mesi. Nonostante oggi siano cambiate molte cose ho ancora paura, sento la pressione su di me e non riesco a camminare per strada. Per ventuno anni ho smesso di essere un uomo. Non avevo più amici, nessuna vita sociale, nessun sentimento da esprimere se non l’angoscia che tuttora mi assale quando ripenso a quei momenti. A volte riuscivo ad incontrare mia madre, per pochi minuti. Ci guardavamo senza parlare, ma almeno mi vedeva e sapeva che ero ancora vivo. Avevo paura di scoprirmi troppo, mi sentivo braccato.

J. G.: Durante questo lungo periodo ha ricevuto l’appoggio del suo partito?
S. B. A.: Il partito non esisteva più. I suoi membri o erano fuggiti in esilio o si trovavano in carcere. Chi era stato risparmiato dalle condanne si guardava bene dal continuare la benché minima attività. Io ho potuto contare sull’aiuto di alcune persone che conoscevo, tra queste alcune che simpatizzavano con il movimento. In un primo tempo, diciamo i primi sette-otto anni di clandestinità, cambiavo spesso nascondiglio. Restavo rinchiuso in una casa un mese, due al massimo, e poi di notte mi trasferivo da un’altra parte. La polizia continuava a cercarmi. A volte sono riuscito a scappare solo pochi minuti prima del loro arrivo. Allora ho deciso di rintanarmi in un sotterraneo, senza finestre né porte di accesso, a parte un buco scavato sotto la casa di un amico (aveva iniziato i lavori per trasformare il sotterraneo in una dispensa). E’ stato lui stesso a mostrarmelo e a portarmi acqua e cibo per oltre dieci anni. I topi e i serpenti che talvolta entravano nel rifugio erano i soli a ricordarmi che esisteva ancora una vita intorno a me.

J. G.: Che cosa pensa di fare adesso?
S. B. A.: Mi presenterò alla giustizia, chiedendo la revisione dei processi e l’annullamento della condanna. Non penso di riprendere l’attività politica, almeno per ora. Voglio starmene tranquillo con la mia famiglia, ho perduto più di venti anni della mia vita. Quando ho scelto la clandestinità avevo solo ventisette anni, ora ne ho quasi cinquanta. Non posso recuperare il tempo che mi è stato rubato, ma prima di tornare ad essere un militante di Ennadha voglio tornare ad essere un uomo.

J. G.: Nei pochi giorni trascorsi nella capitale ha avuto occasione di incontrare i vecchi compagni?
S. B. A.: Ne ho incontrati alcuni, quelli con cui ero in rapporti più stretti.

J. G.: Quale sarà l’atteggiamento di Annadha nei prossimi mesi? Parteciperà alle elezioni?
S. B. A.: Rachid Ghannouchi ha dichiarato apertamente che non si presenterà alle elezioni presidenziali. Preferisce prima ricostruire la base del partito. Non saprei dire quanti membri contasse Annadha prima della dissoluzione, né quanti attivisti siano pronti oggi ad uscire allo scoperto. In ogni caso, il paese non è pronto né per un governo islamico né per un presidente islamico. La popolazione tunisina, dopo aver cacciato il tiranno, non vuole certo un cambiamento radicale, e anche per noi non è il momento di pensare alla sharia, ma solo alla libertà che ci è stata offerta.
Il nostro è un movimento moderato, attaccato ai valori dell’islam, ma rispettoso della democrazia e della libertà dell’individuo. Con il tempo, forse, sarà lo stesso popolo tunisino a premiare le nostre idee. Come successo in Turchia all’AKP di Erdogan. Quello turco è un modello che Annadha ha ormai adottato come riferimento, sia a livello ideologico sia sul piano contestuale. Ataturk aveva costruito un paese laico, come la Tunisia di Bourghiba, ma questo non ha impedito ad un partito islamico moderato, dopo sforzi e sofferenze, di accedere al potere con un largo sostegno della popolazione.

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