Arrêt sur image

mercoledì 16 febbraio 2011

“In caso di rivolta l’obiettivo sarà la monarchia”

RABAT - Maati Monjib è professore di Storia e politica dei paesi del Maghreb all’Università di Rabat (Institut des Etudes Africaines, Université Mohammed V—Souissi) e Chairman dal 2008 al Saban Center for Middle East Policy (The Brookings Institution, Washington, D.C.). Oltre ad essere tra i fondatori del Centre Ibn Rochd d'Études et de Communication (Rabat), collabora attualmente con il mensile storico-divulgativo Zamane.
Nel 1992 il Professor Monjib ha pubblicato uno dei primi studi accademici sull’edificazione dell’assolutismo monarchico in Marocco. Il libro, La monarchie marocaine et la lutte pour le pouvoir: Hassan II face à l'opposition nationale, de l'indépendance à l'état d'exception (Paris, L'Harmattan), è tuttora vietato nel paese. Partendo dall’analisi della sua opera, Maati Monjib ricostruisce il quadro politico del Marocco post-indipendenza e l’evoluzione del sistema di potere nello Stato maghrebino fino ai giorni nostri. Descrive i rapporti di forza che legano la monarchia di Mohammed VI al panorama politico attuale, e parla del ruolo rivestito dalle forze islamiste e dalla società civile, in un paese che si prepara all’esplosione del dissenso (appuntamento fissato per il 20 febbraio).



Intervista a Maati Monjib (Rabat, 14 febbraio 2011)

Signor Monjib, cosa ha scritto di terribile nel suo libro “La monarchie marocaine et la lutte pour le pouvoir” da non poter essere letto qui in Marocco?
Per prima cosa, nel mio libro ho trattato la monarchia marocchina come un normale attore politico, desacralizzandola, e facendovi riferimento senza troppa riverenza. Altro motivo della censura è che all’interno del libro ci sono delle verità storiche documentate, non gradite ad Hassan II, che dimostrano come il sovrano è riuscito ad assumere un potere assoluto, eliminando gli altri attori politici presenti negli anni post-indipendenza, come per esempio i nazionalisti, i comunisti, i sindacalisti e gli intellettuali indipendenti. Nel libro parlo anche della corruzione con cui il makhzen (sinonimo di apparato monarchico, ndr) ha costruito la propria sociologia del potere, distribuendo le terre coloniali tra i più devoti servitori. In più, La monarchie marocaine et la lutte pour le pouvoir è un’opera accademica, non un pamphlet politico, che ha totale legittimità essendo basata su documenti, testimonianze, giornali dell’epoca e discorsi dello stesso Hassan II, e non su speculazioni teoriche. Per esempio quando affermo che Hassan II temeva la scuola e l’istruzione, riporto le sue stesse parole. L’educazione nel senso moderno del termine rappresentavano una minaccia politica e ideologica per il trono. In un discorso alla nazione pronunciato il 25 marzo 1965, in seguito alle rivolte sociali scoppiate a Casablanca, Hassan II ha dichiarato apertamente, riferendosi al popolo marocchino: “era meglio che voi foste tutti degli illetterati, non c’è pericolo più grande per lo Stato che la presenza di intellettuali”. Deve sapere che quando il vecchio re era arrabbiato diceva sempre la verità.

Quali furono le misure adottate dal regime per combattere “il pericolo dell’istruzione”?
Negli anni sessanta avevamo in Marocco il miglior sistema universitario d’Africa (esclusa l’Africa bianca del sud). A partire dal 1965 il livello dell’insegnamento è crollato. I funzionari di regime hanno recepito il messaggio lanciato da sua maestà. Gli unici centri risparmiati da questo processo di regressione sono state le scuole tecniche. Il sistema aveva comunque bisogno di quadri ben preparati, non poteva permettersi di formare dei tecnici incompetenti. La soluzione, in questo caso, è stata militarizzare gli istituti. Per esempio la scuola per ingegneri di Mohammedia è divenuta un istituto militare. Ancora oggi chi la frequenta è sì un ingegnere, ma allo stesso tempo un graduato. Così viene inculcata nella sua mente l’ideologia del regime, l’ideologia della sottomissione al potere. Quanto alle università, le hanno semplicemente lasciate deperire. Alcune materie, come la filosofia, l’antropologia e la sociologia, erano considerate i nemici naturali di uno Stato assoluto in piena epoca moderna. Così nel 1972, dopo una fase diciamo di preparazione, hanno chiuso i dipartimenti. E non per motivi economici, del resto lo hanno detto ancora una volta in modo chiaro: “la sociologia e la filosofia formano solo dei sovversivi e degli ignoranti”, scriveva Hassan Alawi, cugino del re e responsabile del quotidiano monarchico Le Matin. Non tolleravano che gli studenti formassero uno spirito critico, la base su cui poggia la modernizzazione dei valori. Ripeto, Hassan II credeva che l’educazione moderna fosse un pericolo ideologico per il sistema di potere tradizionale che si era costruito attorno a lui.

Come è cambiato, se si può parlare oggi di cambiamento, l’atteggiamento del regime verso l’istruzione?
L’atteggiamento del regime è cambiato nel corso dei decenni a seconda delle necessità contingenti. Negli anni ottanta, per esempio, sono comparsi i dipartimenti di studi islamici. La monarchia ha cercato di seguire il modello saudita, per impedire l’evoluzione della società verso la modernità culturale, politica e sociale. Ha cercato di arginare in questo modo il bisogno di libertà, democrazia e rispetto dei diritti che permaneva nella popolazione. La metà degli studenti universitari nel ventennio ’80-’90 erano iscritti nei corsi di studi islamici, che propugnavano un recupero dei valori tradizionali e autoritari dell’islam. In questo periodo la sinistra è pressoché scomparsa dall’università e l’UNEM (Unione nazionale degli studenti marocchini) è finita nelle mani degli islamisti. Il risultato è stata la diffusione dell’ideologia islamica in tutte le sue forme e varianti. Quando l’islamismo è divenuto ancor più pericoloso per il regime, rispetto all’opposizione di sinistra e alla modernità culturale, sono stati riaperti i dipartimenti di filosofia e di scienze sociali, a partire dalla fine degli anni novanta. Questo dimostra che lo Stato non ha una strategia costruttiva, non propone un vero modello di società, ma solo un’insieme di tattiche per gestire nell’immediato le manifestazioni del dissenso.

Riferendosi al regno di Hassan II (1961-1999), lei ha parlato di monarchia assoluta. Può precisare questa definizione?
Quando parlo di monarchia assoluta non mi riferisco al senso giuridico del termine, ma ad una valutazione prettamente politica, che riflette una realtà di fatto. Nel linguaggio scientifico si parla di monarchia assoluta in assenza di una costituzione. Nel caso marocchino, invece, gli anni che vanno dall’indipendenza (1956) alla redazione della prima costituzione (1962) possono essere considerati un periodo di monarchia costituzionale pur in assenza del requisito di base. E’ una questione di rapporti di forza. Al tempo, il movimento nazionale (in cui erano compresi anche socialisti e comunisti) era riuscito ad imporsi al sovrano Mohammed V. Quando il movimento si è indebolito, a causa delle divisioni interne e della fagocitazione dei suoi quadri nelle strutture dello Stato, il rapporto di forza è cambiato a vantaggio del Palazzo. Così la monarchia assoluta, paradossalmente, è cominciata proprio con la promulgazione della costituzione, che ha legittimato le prerogative di dominio e controllo del nuovo re Hassan II. Una situazione rimasta immutata fino agli inizi degli anni novanta.

Alcuni analisti sostengono che l’inizio degli anni novanta hanno segnato l’avvio della transizione democratica in Marocco. E’ d’accordo con questa valutazione?
No. Quella avviata negli anni novanta non è una transizione democratica, al massimo la manifestazione di una tendenza “democratizzante”. Quando si parla di democrazia si fa riferimento alla redistribuzione del potere verso le istanze elette, cosa che ancora non è avvenuta in Marocco. C’è stato però un processo di liberalizzazione nel senso politico del termine. Più libertà, meno repressione e torture rispetto agli “anni di piombo” e un minor controllo della parola. Un processo che dall’inizio degli anni novanta è andato in crescendo fino al 2003 (attentati di Casablanca), anno in cui la dinamica si è invertita ed è cominciata una lenta regressione.

A cosa si deve questa “liberalizzazione” avviata da Hassan II dopo il terrore alimentato durante gli anni di piombo?
In sostanza si sono modificati ancora una volta i rapporti di forza. Hassan II aveva commesso un errore monumentale, non si era reso conto che la società si era evoluta, nonostante lo stato deprecabile dell’educazione, e che i media (intesi come canali di mediatizzazione in generale, non i giornali o la televisione nazionale) erano cambiati. La manifestazione concreta si è avuta nel 1991, quando è scoppiata la Prima guerra del Golfo. I marocchini erano radicalmente pro Iraq, un paese emotivamente associato alla Palestina e alla sofferenza araba causata dall’Occidente, e il re, che aveva appoggiato l’attacco americano, si è trovato totalmente smentito dal suo popolo. A Rabat sfilarono pacificamente almeno 500 mila manifestanti, più della stessa popolazione cittadina dell’epoca. Hassan II aveva vietato la marcia, affermando: “non tollererò nessuna dimostrazione, né pro Iraq né contro l’Iraq. La monarchia ha dovuto cambiare opinione ed ha iniziato ad avere paura che le cose gli stessero per sfuggire di mano. Mutati i rapporti di forza tra la monarchia e il popolo, è iniziata una stagione di apertura politica, di liberalizzazione politica come ho detto prima, che è sfociata nel governo di alternanza (1998-2002) guidato dal premier socialista Youssoufi. In concreto però, il sovrano ha conservato ad oggi il suo controllo assoluto. Mohammed VI rimane infatti Capo del governo, vertice della magistratura e delle forze armate, oltre che Amir al-muminine, “Capo dei credenti” e dunque guida religiosa. Le speranze di democratizzazione sorte nei primi anni novanta si sono scontrate, ben prima degli attentati di Casablanca, con la guerra civile algerina e la minaccia di destabilizzazione del paese.

Qual è la sua valutazione, sul piano politico, dei primi dieci anni di regno Mohammed VI?
Dal 1999 ad oggi, la dialettica politica marocchina, che era rimasta viva e feconda pur negli anni della clandestinità e della repressione violenta, è praticamente morta. Con il governo di alternanza quella che era l’opposizione tradizionale, cioè Istiqlal (il partito nazionalista), USFP (Unione socialista delle forze popolari), PPS (Partito del progresso e del socialismo), PADS (Partito dell’avanguardia democratica e socialista), è stata integrata nelle strutture del regime, senza che ciò comportasse una maggior condivisione del potere decisionale, sia a livello legislativo che esecutivo. I singoli rappresentanti politici sono stati assorbiti negli ingranaggi di una gestione dello Stato che resta prerogativa esclusiva della monarchia. Sono entrati a far parte del governo ed hanno dimenticato le rivendicazioni iscritte nei loro stessi programmi politici. Per esempio l’USFP, nel 2002, ha rinunciato alla richiesta di una modifica della costituzione in senso democratico pur di continuare a far parte dell’esecutivo. Una rivendicazione che il congresso aveva imposto all’ufficio politico. Per questo motivo i partiti si sono svuotati di peso e di significato nell’ultimo decennio. Sono diventati delle scatole prive di contenuto, prive di idee e di progetti sociali e politici. Hanno perso il sostegno della popolazione e la legittimità agli occhi della gente, che li vede come apparati burocratici che servono il sistema di potere per sedere alla sua tavola.

Le elezioni legislative del 2007 sono un segnale inequivocabile di questo vuoto politico, non trova?
Senza dubbio, dal momento che solo un marocchino su cinque tra gli aventi diritto ha espresso una preferenza politica. E’ evidente, la popolazione sa che il potere decisionale non è nelle mani delle istanze elette ma altrove, a Palazzo. E il Palazzo non è sottoposto al voto. Questa situazione però è ancora più pericolosa per il regime, che si trova con le spalle scoperte. Stanno venendo meno più filtri politici tra il sovrano e il popolo. Ciò significa che in caso di un sollevamento popolare, sarebbe la monarchia l’obiettivo della rivolta.

Lei ha parlato di “assenza di idee e di progetti politici e sociali” nei partiti dell’opposizione storica. Ma le forze islamiste marocchine di idee e progetti sembrano averne eccome.
Questa situazione ha senza dubbio rafforzato gli islamisti, tanto il PJD (Partito della giustizia e dello sviluppo, formazione islamica moderata, ndr) che siede ai banchi del parlamento quanto l’associazione Giustizia e Carità (un movimento non riconosciuto dal regime che contesta la legittimità della dinastia alawita, ndr) che ha largo seguito tra la popolazione. Sono i soli oggi ad incarnare nello scenario politico marocchino un vero sentimento di opposizione. Chi è critico verso il regime o vota PJD, fatta eccezione per i piccoli partiti della sinistra radicale, o è vicino all’organizzazione di Yassine. Le faccio un esempio. I grandi quartieri popolari di Casablanca o delle città del nord come Fes, Meknes e Tangeri, che negli anni novanta votavano USFP, adesso votano PJD o boicottano le elezioni, come chiede Giustizia e Carità. L’USFP è diventato invece un partito a base pressoché rurale, sono i notabili a sostenerlo, quelli che hanno interessi individuali o di clan da difendere.
Quindi, per tornare alla sua domanda precedente e concludere questa lunga analisi, il risultato evidente dei primi dieci anni di regno di Mohammed VI è la scomparsa dallo scenario politico di un’opposizione laica e intrinsecamente democratica, quindi l’indebolimento del sistema socio-politico in sé.

E’ per ovviare a questo indebolimento che il regime è intervenuto direttamente nel contesto politico imponendo al suo uomo più fidato di creare un nuovo partito?
Il PAM (Partito dell’autenticità e della modernità) è la punta dell’icebeg e forse il prodotto più preoccupante, sul piano della sociologia politica, del regno di Mohammed VI. Con la creazione del PAM la monarchia ha cercato di canalizzare il sostegno di una parte dell’élite che non era inclusa nelle formazioni politiche “storiche”, approfittandone per modellare il nuovo partito in uno strumento totalmente devoto al sistema. La seconda ragione che spiega la creazione del PAM è la sua funzione anti PJD e anti islamista. Tuttavia, non è da una posizione ideologica che il PAM muove guerra al PJD e all’associazione di Yassine. Fouad Ali El Himma, consigliere del re ed ex numero due del Ministero dell’Interno, ha semplicemente risposto all’input di contrastare il partito più forte, l’unico che ancore gode di un vasto sostegno popolare e che muove critiche al regime.

In questi giorni si è tornati a parlare della “benalizzazione” del Marocco. Pensa che in questo senso sia possibile azzardare un paragone PAM-RCD?
Il PAM può essere considerato un organo di Stato, il portavoce della politica monarchica e in questo senso è stato concepito sul modello dell’RCD tunisino. Tenga presente che è stato creato nell’agosto 2008 e in dieci mesi è diventato il primo partito del regno, conquistando la maggioranza delle amministrazioni locali (in occasione delle elezioni locali tenutesi nel giugno 2009, ndr) e dei seggi nella Camera alta. Quando collaboravo con Le Journal Hebdomadaire l’ho scritto subito: ecco un nuovo sintomo, dopo la concentrazione dell’economia nazionale nelle mani del regime e l’addomesticamento della stampa, della “benalizzazione” del paese. Non è un’analisi posticcia e decontestualizzata, al contrario. Pur essendo evidenti le differenze tra i due paesi, l’intenzione della monarchia era chiara fin da prima della creazione ufficiale del PAM, dalla comparsa del Movimento per tutti i democratici promosso dallo stesso El Himma. Questo partito serve a difendere l’autocrazia alawita cercando di ottenere il monopolio della rappresentanza politica e praticando uno spudorato opportunismo ideologico.

A cosa si riferisce quando parla di opportunismo ideologico?
Riprendo quanto stavo dicendo poc’anzi rispetto alla funzione anti PJD e anti Yassine del PAM. Il partito di El Himma, da una parte, ha mobilizzato le genti contro gli islamisti, recuperando i laici, i vecchi militanti di sinistra e la borghesia liberale. Dall’altra ha sempre sostenuto la Commanderie des croyants, lo strumento che legittima il primato del re in materia religiosa (art. 19 della costituzione, ndr), continuando a sacralizzare l’istituzione monarchica e ad invocare la gestione tradizionale del potere. Ma a mio avviso non c’è un sistema più islamista del nostro, dove il capo politico è allo stesso tempo vertice religioso. Questo è opportunismo ideologico. Se, per ipotesi, nelle prossime elezioni si affermasse il partito socialista, il PAM diventerebbe automaticamente anti socialista. La sola ideologia del PAM è la conservazione dello statu quo sommata ad una volontà egemonica, che potrebbe beneficiare dell’attuale vuoto politico.

Quindi il PAM può essere considerato il “frutto legittimo” delle tattiche camaleontiche usate dalla monarchia di cui ha parlato prima?
Si. L’opportunismo del PAM non fa che riflettere l’opportunismo della stessa monarchia, che diventa liberale, islamista o nazionalista a seconda dei casi e della convenienza. Quando il sovrano vuole concentrare le sue critiche e le sue pressioni verso un orizzonte politico particolarmente forte e rivendicativo, allora crea un partito, con un’ideologia decisa ad hoc, per fargli guerra sul suo stesso terreno. La storia del Marocco post-indipendenza ce lo insegna e sotto questo aspetto Mohammed VI si iscrive nella piena continuità con il passato. Negli anni sessanta, quando il peso del nazionalismo di stampo islamo-tradizionalista era dominante, Hassan II aveva lanciato lo FDIC (Fronte di difesa delle istituzioni costituzionali), un partito pro-occidentale il cui leader, Ghedira, parlava più francese che arabo e si dichiarava apertamente liberale. Negli anni settanta, quando la corrente sindacale e socialista era la più forte, il regime ha creato un partito liberale (RNI, Raggruppamento nazionale degli indipendenti). Una monarchia davvero eclettica, non c’è che dire…

Nell’attuale contesto di vuoto politico, qual è lo spazio che resta per la manifestazione del dissenso?
Tra il 2007 e il 2009, è stata la stampa ha giocare un vero ruolo di opposizione. Giornali come Tel Quel, Le Journal Hebdomadaire e Al Massae in origine, erano le uniche voci di dissidenza laica e pro-democratica, per questo sono state recentemente liquidate dal regime. La stampa indipendente ha subito pressioni e un duro boicottaggio economico, tanto che o è stata costretta alla chiusura, come nel caso del Journal o di Nichane, o ha dovuto stravolgere la sua linea editoriale per sopravvivere, come ha fatto Al Massae ormai definitivamente makhzeniano e come sta facendo Tel Quel dopo la partenza del direttore Benchemsi. Ma, la scomparsa della stampa indipendente, è stata ben presto ovviata dall’utilizzo dei nuovi canali mediatici di libera espressione: Internet e i suoi strumenti di contatto, come YouTube, Twitter e Facebook, oltre ai blog e ai giornali on-line, dove i marocchini risultano sempre più attivi. Direi che Internet è ormai il primo spazio di libero esercizio della citoyennité (termine che indica la consapevolezza dei diritti e doveri dati dall’essere cittadino e non più suddito, ndr) in Marocco.

Quale ruolo riveste in questo Marocco la società civile?
Anche il lavoro delle associazioni, o meglio di alcune organizzazioni come per esempio l’Associazione marocchina per i diritti umani (AMDH), è sicuramente volto a riempire il vuoto politico che blocca l’evoluzione dello Stato. Questo perché negli ultimi venti anni è stato concesso uno spazio di lavoro alla società civile, anche a quella dichiaratamente pro-democratica, che fino ad ora è servita un po’ da valvola di protezione per il regime. Le pressioni subite all’interno del panorama associativo in generale sono minori rispetto a quelle che condizionano il contesto politico. Questo perché un partito, in quanto tale, ha l’obiettivo intrinseco alla sua condizione di prendere il potere. Dunque tutte le formazioni di opposizione, anche quelle minori, costituiscono in linea di principio un pericolo per il sistema. Le associazioni invece perseguono finalità civili e non politiche. Ma quando il loro attivismo assume una valenza nettamente politica, scatta la repressione, come è successo nel giugno scorso all’AMDH, di cui alcuni membri del governo hanno chiesto a gran voce la dissoluzione.

In un contesto nordafricano scosso dai sollevamenti popolari (Tunisia, Egitto, Algeria), quale pensa che sia lo scenario che si rifletterà, a breve o a lungo termine, in Marocco?
Per il momento non credo in una ripetizione del modello tunisino o egiziano in territorio marocchino. In altre parole, non credo sia possibile ad oggi una rivoluzione. C’è la frustrazione sociale, frutto anche di una disoccupazione endemica, le cui cifre ufficiali sono ben distanti dalla realtà. Almeno un terzo dei laureati sono senza lavoro e, quel che è peggio, senza prospettive concrete per l’avvenire. C’è la voglia di cambiamento e di democrazia, ma il regime è in ogni caso meglio attrezzato per gestire una crisi rispetto all’apparato di potere di Ben Ali. Del processo di “liberalizzazione” politica di cui le ho parlato poco fa, in Tunisia non c’era la minima traccia. In Marocco l’opposizione è svuotata ma non ancora annientata. Penso che di fronte ad una contestazione, la monarchia potrebbe riattivare quelle valvole di protezione sociale (le associazioni e qualche partito politico) che le consentirebbero, almeno in teoria, di canalizzare il dissenso. Mohammed VI potrebbe quindi cavarsela con qualche piccola riforma. Questo a breve termine. A lunga scadenza invece, se il sovrano non concederà aperture immediate e il progetto PAM dovesse concretizzarsi, lo scenario sarebbe ben diverso. Ma, in tutta franchezza, credo che il Palazzo stia già facendo tesoro dell’esperienza tunisina ed egiziana. Mohammed VI abbandonerà la strada del partito unico e romperà il cordone ombelicale che lo lega al PAM. In questo momento, non farlo, sarebbe troppo pericoloso per i suoi stessi interessi.

In caso di contestazione, quale potrebbe essere la reazione dei militari?
L’esercito è un altro degli strumenti in mano alla monarchia se questa si trovasse di fronte ad una forte contestazione. Il Palazzo non avrebbe nulla da temere dai militari. Una parte degli ufficiali è corrotta e del resto, dopo i due tentativi di golpe (1971, 1972), il messaggio lanciato da Hassan II ai vertici dell’esercito è stato chiaro: “arricchitevi e lasciate perdere la politica”, che tradotto significa “lasciatevi pure corrompere, basta che non mi mettiate più i bastoni tra le ruote”. Le forze armate, che non a caso si chiamano “reali” (FAR, Forces Armées Royales), nell’ipotesi di scontri violenti non prenderebbero le difese della nazione, quindi del popolo, come successo in Tunisia e in Egitto, ma si posizionerebbero a protezione del sovrano e del suo apparato.

L’associazione islamica Giustizia e Carità ha già appoggiato ufficialmente la manifestazione del 20 febbraio. Come pensa che si muoverà l’organizzazione di Yassine, ben radicata nella popolazione e da sempre contestataria della monarchia alawita?
Nel caso di una rivolta della popolazione urbana, come potrebbe accadere il prossimo 20 febbraio e nelle settimane a seguire, la gioventù liberale e i seguaci di Yassine giocherebbero un ruolo alla pari. Di sicuro gli islamisti non cercheranno di strumentalizzare il movimento di contestazione per mettersi in mostra, perché sanno che diventerebbe controproducente, soprattutto di fronte all’opinione pubblica occidentale che segue gli eventi mediorientali con timore. Inoltre il sostegno di matrice islamica alla protesta, oltre a Giustizia e Carità, potrebbe venire dalle nuove generazioni del PJD, molto più aperte e democratiche rispetto ai fondatori del partito. Le nuove leve possono intendersi senza problemi con gente che la pensa in maniera diversa ma che ha gli stessi obiettivi: la democrazia, la redistribuzione delle ricchezze del paese, il rispetto della dignità del marocchino medio, la fine di un sistema che li umilia e che li opprime con le sue leggi e i suoi baciamani (in riferimento alla baya, l’atto obbligatorio di devozione al sovrano). I marocchini ne hanno abbastanza di essere etichettati e scherniti dai vicini algerini come dei “baciatori di mani”.

Nessun commento: