Arrêt sur image

lunedì 12 luglio 2010

Melilla. La frontiera delle tartarughe

In fondo alla discesa sterrata una massa umana informe e rumorosa si accalca a pochi metri dai cancelli della frontiera. I poliziotti sembrano osservare la scena con aria impassibile ma, di tanto in tanto, assestano colpi di manganello a caso in mezzo alla folla. “Cercano di separare le donne dagli uomini, per mettere un po’ di ordine nei passaggi e per lasciare spazio a chi rientra con il carico”, commenta un funzionario della dogana in modo fin troppo diplomatico.



Sono quasi le dieci e il calore del sole africano comincia a farsi sentire. Nell’aria polverosa si distingue un vago odore di pesce. I marinai sono rientrati dal porto e, assieme ai contadini del quartiere, allestiscono con casse di legno e qualche banchetto un mercato improvvisato lungo la strada che scende al valico. Ma i passanti non vi prestano troppa attenzione. I più si affrettano correndo verso il fondo della discesa, mentre gli altri risalgono mestamente la carreggiata in senso opposto, trascinandosi dietro grosse sacche di tela.
Ogni giorno circa trentamila marocchini, in gran parte donne, attraversano il confine che li separa da Melilla. Alcuni lo fanno per rifornirsi di beni di prima necessità, curiosamente meno cari dall’altra parte della frontiera. La maggioranza, invece, contrabbanda prodotti di ogni genere raccolti nei magazzini che circondano lo scalo iberico. Ad agevolare questo commercio, gli accordi siglati tra i governi di Madrid e Rabat negli anni settanta, che permettono la circolazione nell’enclave spagnola agli abitanti di Nador, il capoluogo della regione del Rif (Marocco settentrionale) situato a soli dieci chilometri di distanza. Da allora, sebbene la legislazione in materia di immigrazione sia divenuta via via più restrittiva, i passaggi giornalieri continuano ad essere autorizzati senza bisogno del visto o del timbro sul passaporto.

Barrio Chino
Khadija si sveglia ogni mattina alle cinque. Quando si mette in cammino è ancora notte. Costeggia il doppio reticolato alto sette metri che protegge la fortezza Shengen per raggiungere il Barrio Chino. E’ in questo punto della frontiera che da dieci anni Khadija, come migliaia di sue connazionali, entra in Spagna tutti i giorni per caricare sulle spalle un enorme fardello, fissato al petto e al bacino da una corda. Cinquanta chili di merce incollati alla schiena da trasportare al di là del confine, piegata sulle ginocchia a novanta gradi per riuscire a muovere, lentamente, un passo dopo l’altro. “All’inizio pensavo di non reggere – racconta la donna, sulla quarantina – fare la portatrice è un lavoro duro, faticoso, ma ormai mi sono abituata”. Ha appena concluso la prima staffetta della giornata, per un compenso di 50 dirham (meno di 5 euro). I carichi più pesanti, all’incirca un quintale, vengono pagati un po’ di più (anche 70 o 80 dirham). Con una smorfia di sofferenza sul viso deposita il “pacco” in un carretto arrugginito, aiutata da un paio di ragazzini, e ritorna ciondolante verso la fila in attesa, pronta a passare di nuovo dall’altra parte. Un secondo viaggio le permetterebbe di raddoppiare il magro guadagno. Ma il varco rimane aperto dalle otto all’una e solo le più resistenti riescono a compiere il tragitto due o tre volte nello stesso giorno.
Khadija non è che una piccola leva nel complesso ingranaggio del contrabbando, che ogni anno muove da Melilla a Nador una quantità di merci pari, secondo stime non ufficiali, a 700 milioni di euro. Dal giugno del 2008 una decisione del governo di Rabat, assecondata dalle autorità spagnole, ha trasferito l’attività transfrontaliera dal Paso Beni Enzar, l’accesso principale riservato ora al traffico dei veicoli (e vietato, in teoria, al commercio), al Paso Barrio Chino, un piccolo attraversamento pedonale, nascosto allo sguardo dei turisti che transitano sempre più numerosi da un lato all’altro del confine.
Attraverso il Barrio Chino si trasporta di tutto, dai vestiti alle coperte, dagli utensili per la casa ai pezzi di ricambio per automobili, dai televisori agli alcolici. I traffici avvengono alla luce del sole, senza alcun pudore. Alla dogana nessuno controlla. Il volume giornaliero di passaggi calcolato in questo tratto oscilla tra i cinquemila e i diecimila (a seconda della quantità di merci che di volta in volta approdano dalla penisola). Ma le strutture sono decisamente insufficienti. Inadeguate ad accogliere un simile flusso. “Prima non si formavano queste code immense”, ricorda Soumia, trentacinque anni da cinque portatrice. “A Beni Enzar c’era molto più spazio. Qui i tornelli sono troppo stretti – continua la giovane contrabbandiera in un discreto spagnolo – e a volte è davvero difficile passare con le nostre zavorre fissate sulla schiena. Restiamo incastrate. Così, oltre alle botte dei poliziotti, rischiamo di ricevere calci e spintoni da quelli che sono bloccati dietro di noi”. Perché gli agenti vi colpiscono con i manganelli? Soumia sembra quasi sorpresa dall’ingenuità della domanda. “Non c’è una ragione precisa. A volte lo fanno perché qualcuno mette un piede fuori dalla fila o perché vuole domandare qualcosa. Oppure perché non ha i soldi per il bakchich”. I doganieri di Nador, disposti a chiudere un occhio sul contrabbando, esigono infatti da ogni portatore una “tassa di passaggio”, che varia da 5 a 10 dirham in base al volume e al contenuto del carico trasportato. “Dobbiamo pagare prima per entrare a Melilla e poi, una volta caricata la merce, per tornare in Marocco. Se non lo facciamo non ci lasciano passare e ci rispediscono in fondo alla coda”, precisa Soumia, che non può permettersi di rimanere senza lavoro, neanche per un giorno.


“Uno spettacolo da terzo mondo”
Nella parte melillense del Barrio Chino, a duecento metri dall’accesso al territorio marocchino, un ampio piazzale in terra battuta funge da centro di smistamento per i prodotti in arrivo dal porto. Decine di furgoni stracolmi, circondati dai portatori che attendono la consegna del carico, depositano al suolo la merce già impacchettata. In mezzo alla confusione e al via vai continuo si intravedono tovaglie, scarpe, lenzuola e perfino pneumatici, raccolti alacremente dalle staffette. Schiacciate dai fardelli e fiaccate dal caldo torrido, le donne raggiungono a fatica la catena umana in marcia verso Nador. Avanzano piano, in fila indiana, lungo il reticolato di confine. Con il mento che sfiora le ginocchia. Come tartarughe inchiodate a terra dal peso di un guscio troppo voluminoso.
Gli agenti della Guardia Civil controllano che il transito verso la frontiera avvenga in piccoli gruppi formati al massimo da cinque o sei unità. Nemmeno loro si fanno scrupoli ad usare il manganello. “Se c’è troppa calca i marocchini non riescono a riscuotere le mance e chiudono i cancelli. Questa gente, poi, finisce per perdere la testa e diventa incontrollabile”, sembra discolparsi un poliziotto a pochi metri dalla dogana. Spinto dall’orgoglio, o più probabilmente da un impeto di indignazione, un collega aggiunge: “nessuno ha il coraggio di fare qualcosa e lasciano a noi la patata bollente. Chi gestisce il contrabbando è protetto e può permettersi di sfruttare questa gente, pagandola una miseria. E’ uno spettacolo da terzo mondo, proprio qui in casa nostra!”.
Eppure il comune di Melilla e la Delegazione del governo iberico avevano annunciato nel giugno 2008, al momento del trasferimento del flusso transfrontaliero al Paso Barrio Chino, la costruzione di apposite strutture per migliorare le condizioni di lavoro dei corrieri marocchini, definite dalla stampa locale “inumane e degradanti”. Ma il tendone di plastica sistemato lungo il confine non ha retto più di tre mesi. La prima pioggia consistente se l’è portata via. Stessa sorte è toccata ai sei bagni installati a lato dello spiazzo sterrato e all’unica fonte di acqua potabile messa al servizio di migliaia di persone. Da allora non è cambiato più niente. Nemmeno dopo il grave incidente che il 17 novembre 2008 è costato la vita a Safia Azizi, una maghrebina di quarantun anni originaria di Fès, calpestata a morte dai compagni qualche secondo dopo aver messo piede in territorio spagnolo. Safia era laureata in letteratura araba. Un’eccezione nell’universo del contrabbando, dove per lo più lavorano ragazze madri bandite dalla famiglia, mogli ripudiate o in generale donne analfabete. A lungo disoccupata, si era trasferita a Nador in cerca di maggior fortuna.
Dunia, una portatrice nata a Meknès, era presente al momento della tragedia. “La polizia aveva aperto il varco da pochi minuti e i primi a passare si sono ammucchiati all’altezza dei cancelli di ingresso”, ricorda con voce dimessa. Poi, indicando la frontiera, cambia tono e con la rabbia negli occhi aggiunge: “quella gabbia di metallo non sembra fatta per degli esseri umani, assomiglia più ad un mattatoio. La verità è che ci trattano come bestie e, con il passare del tempo, rischiamo davvero di diventarlo”. I passaggi troppo stretti, le lunghe attese e l’impazienza dei corrieri, che cercano di affrettare i tempi per fare più viaggi e aumentare la paga, formano spesso una combinazione pericolosa. Nel Paso Barrio Chino gli affollamenti continuano ad essere una realtà quotidiana e i feriti una conseguenza inevitabile.


“Comercio atipico”
Per Abdelmoumen Chaouki, responsabile della Coordination de la société civile e direttore del mensile l’Echo del Rif, “Spagna e Marocco sono ugualmente responsabili di questa triste situazione, poiché traggono vantaggio da un lavoro estenuante, a costante rischio di incidenti, senza offrire in cambio le strutture adeguate”. Per capire meglio quanto incidano i proventi del contrabbando nell’economia dell’enclave basta dare uno sguardo ai dati forniti dal Tesoro spagnolo nel 2006. In quell’anno Melilla ha importato merci dalla penisola iberica e da paesi terzi per un valore totale di 674 milioni di euro, di cui solo 234 sono stati destinati al consumo interno. Il resto è servito ad alimentare i circuiti del “comercio atipico”, come viene pudicamente definito da queste parti. Quanto all’introito prodotto dall’attività transfrontaliera nel versante opposto, il governo di Mohammed VI non ha mai fornito alcun dato ufficiale.
L’affollamento caotico che ogni giorno irrompe in entrambi i lati del Barrio Chino nasconde in realtà un tessuto organizzativo ben rodato ed efficace. I prodotti, regolarmente acquistati dai commercianti di Melilla, arrivano al porto e vengono subito stoccati nei depositi adiacenti. Dopodiché sono rivenduti ai trafficanti marocchini, che corrompono i doganieri e allestiscono le reti di intermediari e facchini per il trasporto degli imballaggi dall’altra parte del confine. Di questi soltanto una porzione ridotta si ferma a Nador e nelle province del nord, mentre il grosso dei traffici arriva fino ai mercati di Casablanca e Rabat, dove la merce triplica abbondantemente il suo valore.
Fouad si occupa del trasferimento dei prodotti dai magazzini del porto fino alla frontiera. “Ogni trafficante segna i suoi pacchi con un numero, in modo che siano facilmente identificabili”, spiega il giovane maghrebino con passaporto spagnolo, intento a sistemare con lo scotch alcune bottiglie di liquori sotto la jellaba di una donna corpulenta. La catena degli intermediari si divide i compiti con precisione millimetrica. “Una volta rientrati in suolo marocchino, i portatori depositano il carico nel camion di un subordinato, che in cambio gli rilascia un biglietto. A fine giornata, poi, vanno a riscuotere il denaro dall’addetto ai pagamenti”.
Sono molte le categorie sociali che beneficiano, seppur in misura diversa, del “comercio atipico” e del sudore versato dalle “tartarughe” alla frontiera di Melilla. Oltre quattrocentomila persone, secondo la Camera di commercio americana di Casablanca, ne traggono almeno un vantaggio indiretto. Dalle famiglie più povere, che sopravvivono grazie ai pochi spiccioli delle staffette, ai trafficanti di Nador, che sfruttano la loro miseria per arricchirsi. Dai compratori della capitale, che possono acquistare merci a prezzi tutto sommato vantaggiosi, ai commercianti dello scalo spagnolo, che senza il contrabbando sarebbero costretti a cambiare mestiere, considerati i magri consumi di una città di appena 66 mila abitanti. Fermare tutto questo, secondo il responsabile della Coordination de la société civile “è forse una follia”, soprattutto in assenza di alternative concrete. Trafficanti e notabili godono infatti della protezione e della complicità delle autorità locali. Senza contare che a farne le spese sarebbero comunque i più disagiati, privati della loro unica fonte di sostentamento. Ma, come tiene a sottolineare lo stesso Chaouki, “una tale attività, instabile e pericolosa, non può certo essere un modello di sviluppo augurabile per il futuro della nostra gente”.


1 commento:

Anonimo ha detto...

I reportage di jacopo sono sempre molto belli, intensi e partecipati. Complimenti.
Hai un modo di scrivere davvero bello!