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martedì 2 febbraio 2010

Detenuti islamici. Una riconciliazione è possibile?

(Articolo pubblicato da Tel Quel, n. 408, 23-29 gennaio 2010)

“Le famiglie dei detenuti islamici non possono più aggrapparsi alla speranza di una grazia reale” (AFP). E’ questa l’idea sostenuta dall’associazione Ennassir, che si occupa del sostegno ai detenuti salafiti. Sette anni dopo gli attentati del 16 maggio 2003, lo Stato è ormai disposto a tendergli la mano?




Ennassir lancia una nuova proposta. Nel corso di una conferenza, tenuta l’11 gennaio scorso, l’associazione ha suggerito l’allestimento di un “dispositivo di equità e riconciliazione” che riprenda in esame il dossier delle persone arrestate e condannate in modo affrettato nel quadro della “lotta al terrorismo”. La scelta delle parole non è stata fatta a caso. Il richiamo all’Istanza di Equità e Riconciliazione (IER) è pienamente consapevole e voluto, come conferma Abderrahim Mouhtad, instancabile presidente di Ennassir. “L’IER ha permesso di affrontare quanto accaduto durante gli anni di piombo già vissuti. L’iniziativa che noi oggi domandiamo eviterebbe al paese di fare i conti in futuro con nuovi anni di piombo”, spiega Mouhtad, secondo il quale “la riconciliazione con una parte dei detenuti islamici non è solamente auspicabile, ma obbligatoria”. Tuttavia, sette anni dopo gli attentati suicidi del 16 maggio, di chi stiamo parlando esattamente? Chi sono questi islamisti che popolano ancora le nostre prigioni?

Dei detenuti come gli altri?
Circa mille persone, condannate per “terrorismo”, marciscono ancora nei differenti istituti penitenziari del paese. Il grosso è rinchiuso nelle prigioni di Salé (460 prigionieri) e di Kenitra (200). Il resto è ripartito, più o meno in egual misura, tra le prigioni di Fes, Casablanca, Tangeri e Agadir. “La novità è che ora anche i piccoli penitenziari ospitano detenuti salafiti. Ce ne sono a Ben Ahmed, El Jadida e Beni Mellal”, afferma Mouhtad. Secondo alcune fonti del Ministero della Giustizia (che dal 2008 non ha più il controllo delle prigioni), la Delegazione delle carceri avrebbe isolato in questi luoghi di minor importanza gli elementi più turbolenti, gli istigatori degli scioperi della fame, che con le loro proteste sono riusciti a farsi sentire sia in Marocco sia all’estero. La soluzione sembra funzionare. Sempre secondo fonti ministeriali, questi individui fastidiosi beneficerebbero oggi di condizioni di detenzione eccezionali, in cambio della pace garantita all’interno delle prigioni. Un esempio eloquente è quello di Mohamed Fizazi, rinchiuso a Tangeri e ritenuto uno dei ideologi più virulenti del movimento salafita. “La porta della sua cella resta chiusa raramente. All’interno del penitenziario può circolare con una relativa tranquillità. Tutto questo ha a che fare con la collaborazione fornita agli ufficiali che gli rendono spesso visita per raccogliere informazioni”, afferma una fonte dal carcere di Tangeri. Ma, a differenza del caso di Fizazi, alcune figure di spicco del movimento, meno collaborative, stanno sopportando condizioni infernali. E’ il caso di Hassan Kettani, che ha appena sospeso, quasi in fin di vita, uno sciopero della fame durato cinquanta giorni. Anche se proviene da una grande famiglia vicina al Palazzo, “Hassan Kettani trascorre le sue giornate in una cella isolata, tagliato fuori dal mondo e privato di tutto, compresi i suoi diritti più elementari”, dichiarano i suoi familiari. Non è il solo.
I detenuti islamici sono sistemati in settori creati appositamente. Contrariamente ai prigionieri di diritto comune, non possono praticare attività sportive o culturali. Non hanno accesso ai servizi della biblioteca. Nessuno tra loro ha mai beneficiato della formazione professionale offerta dalle strutture in vista di un reinserimento nella società. “Con la nuova amministrazione, le condizioni di detenzione si sono indurite”, afferma un attivista dell’Associazione marocchina per i diritti dell’uomo (AMDH). “Le misure di sicurezza sono aumentate, a dispetto dei dispositivi volti a favorire il reinserimento, pressoché inesistenti per questa frangia di popolazione carceraria”. La Delegazione delle carceri non sembra nascondere le proprie intenzioni. Anche se il numero due dell’amministrazione sostiene che “i salafiti sono prigionieri come tutti gli altri e quindi non possono reclamare privilegi”. Per una volta, il responsabile è preso in parola dagli attori associativi. “Se fossero dei detenuti come gli altri, perché vengono esclusi in maniera sistematica dai provvedimenti di grazia?”, si domanda un militante per i diritti umani. In effetti, dopo gli attentati di Hay Farah (Casablanca, 2007) in cui rimase coinvolto un islamista che aveva beneficiato del perdono reale, Mohamed VI non ha più concesso grazie ai salafiti. “Nel caso specifico di questo ex-detenuto che si è fatto esplodere, bisogna porsi le domande giuste. Dopo la sua liberazione, aveva tentato di ricostruire una famiglia, di trovare un lavoro, ma è stato tormentato dai servizi di sicurezza fino al nuovo cedimento”, spiega il presidente dell’associazione Ennassir.

Anche i figli
La situazione, di per sé complessa, rischia di aggravarsi. I figli di alcuni detenuti islamici, privati dell’autorità paterna, si ritrovano a loro volta in prigione con a carico accuse differenti. “Nessuno può sapere come potranno reagire nei prossimi anni queste vittime collaterali. Dal momento che la grazia, ultima speranza per le famiglie coinvolte, sembra di fatto sospesa, bisognerà aspettarsi il peggio”, taglia corto Abderrahim Mouhtad. A suo avviso, solo l’avvio di un dialogo sincero e obiettivo sarebbe in grado di disinnescare questa bomba ad orologeria. “Oggi gli animi si sono calmati e i sette anni trascorsi sono stati sufficienti per valutare la pericolosità dei singoli detenuti. In più, i prigionieri che potrebbero prendere parte al dialogo hanno quasi tutti riconosciuto i propri errori ed hanno presentato delle domande di grazia ufficiali”. Questa nuova iniziativa riuscirà ad avere successo? L’appello di Ennassir verrà recepito dalle alte sfere? “Il nostro compito è anche quello di proporre soluzioni per uscire dall’impasse. La situazione del resto, comincia a preoccupare seriamente le autorità. Spetta a loro, adesso, avviare il processo di riconciliazione. Solo loro possono evitare i pericolosi risvolti che la vicenda rischia di assumere negli anni a venire”, conclude Abderrahim Mouthad.

Il dilemma. Negoziare, ma con chi?
I detenuti islamici rappresentano un vero e proprio rompicapo per gli ufficiali incaricati del dossier. Per prima cosa non è possibile parlare di un gruppo omogeneo, sostenitore di un’ideologia comune, agli ordini di un’unica organizzazione, come fu il caso, per esempio, degli oppositori di sinistra negli anni settanta. A riunire le centinaia di prigionieri definiti “islamici” o “salafiti” sembra essere soltanto il verdetto pronunciato dalla giustizia marocchina durante i mesi che seguirono gli attentati del 16 maggio. Sarà quindi necessario avviare delle trattative individuali, caso per caso, il che rende questo compito ancor più difficile. Poi, bisognerà considerare la parzialità dimostrata dai giudici che hanno condotto in passato i processi per “terrorismo”. Molti detenuti sono stati condannati a pene severe per aver semplicemente assistito a discussioni religiose animate da imam salafiti. Perciò, non è nemmeno possibile operare una distinzione sulla base delle sanzioni comminate. Infine, lo Stato dovrà prendersi cura di coloro che sono stati segnati in modo più grave dall’esperienza in carcere. Tra gli islamisti ancora in prigione, alcuni hanno perduto la ragione e dovrebbero essere trasferiti all’interno di ospedali psichiatrici.

Driss Bennani

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