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lunedì 30 novembre 2009

Voci dal Marocco. Aboubakr Jamai

Intervista ad Aboubakr Jamai, editorialista a Le Journal Hebdomadaire. Icona della stampa indipendente marocchina, Abubakr Jamai è stato co-fondatore dei settimanali Le Journal e Assahifa nel 1997. Nel 2000 ha fondato Le Journal Hebdomadaire, dove ha ricoperto l’incarico di direttore fino al 2006.





Jacopo Granci: Chi è Aboubakr Jamai? Qual è stato il suo percorso prima di dedicarsi al giornalismo?

Aboubakr Jamai: Ho seguito una formazione economica. Dopo la fine degli studi ho lavorato in una banca commerciale, la Wafa Bank, e poi ho collaborato alla fondazione di una banca d’affari. Nel 1996 sono stato nominato consigliere in materia di comunicazione del Secretariat Exsecutif du Sommet Economique du Moyen Orient e de l’Afrique du Nord. Un’organizzazione creata dopo il Summit Economico di Casablanca del 1994, che aveva il compito di accompagnare lo sviluppo economico dell’area. Ho lasciato l’incarico dopo un anno e mezzo, al momento della nascita de Le Journal (1997), di cui io sono uno dei co-fondatori, assieme ad Ali Amar.

J. G. : Da dove viene l’interesse per il giornalismo, data la sua formazione prettamente economica?

A. J. : Il giornalismo mi ha sempre interessato. Di natura sono curioso. Ho sempre letto la stampa nazionale e, soprattutto, quella internazionale. Credo che tutti i settori siano intrinsecamente legati tra loro. Non si può separare l’economia dalla politica, così come non si può separare la politica dal giornalismo. E in più sono cresciuto, fisicamente intendo, in un contesto giornalistico. Mio padre, Khalid Jamai, ha lavorato a lungo per il quotidiano L’opinion, di cui è stato anche capo-redattore (ora ha una rubrica settimanale Chronique, su Le Journal Hebdomadaire).

J. G. : Che cosa aveva in mente con la creazione de Le Journal?

A. J. : Le Journal si è inserito nello spazio di apertura democratica promosso a gran voce a metà degli anni novanta. Assieme ad Ali Amar ci siamo detti che era quello il momento migliore per fondare un giornale, o meglio ancora, un polo giornalistico che comprendesse un quotidiano e un settimanale, in versione francofona e arabofona. Lo Stato si stava aprendo, stava allentando la morsa che per trent’anni aveva impedito il pluralismo nel Paese.
Il nostro modello era il gruppo Prisa, il gruppo di cui fa parte El Pais. Il quotidiano spagnolo venne fondato nel 1976, dopo la morte di Franco e l’inizio del cammino democratico. Avevamo questa idea in testa. Volevamo ripercorrere quella stessa strada.

J. G. : Come spiega questa apertura? Perché in Marocco si inizia a parlare di stampa indipendente e a trovare nelle edicole nuovi giornali che sfuggono al controllo diretto del Palazzo?

A. J. : A partire dagli anni ottanta, il Marocco ha conosciuto delle evoluzioni strutturali molto importanti, che hanno portato alla comparsa di un certo tipo di giornalismo. Un giornalismo di rottura con quanto si era visto fino a quel momento. Le cause, o meglio i fattori, sono molteplici, e in stretto legame tra loro. Gli avanzamenti in campo politico erano dovuti al cambiamento economico in atto. Personalmente, credo che l’autonomia concessa al settore finanziario ed imprenditoriale abbia giocato un ruolo primario e decisivo nella genesi della stampa indipendente.

J. G. : Mi spieghi meglio.

A. J. : Dalla seconda metà degli anni ottanta, le manovre della monarchia per controllare il Paese sono divenute troppo costose. In più dopo la fine della Guerra fredda, la caduta del muro e la scomparsa del pericolo rosso, erano del tutto ingiustificate. Fino a quel momento l’allineamento agli Stati Uniti e la paura del comunismo avevano fornito un alibi alle politiche repressive del regime, alle gravi violazioni dei diritti dell’uomo durante quelli che sono ricordati come “gli anni di piombo”.
Parallelamente il budget di Stato non poteva più sostenere il costo delle imprese nazionali, via via sempre meno competitive. La crisi economica aveva provocato le rivolte di Casablanca, Fez e Tetuan, la tensione sociale era palpabile. Bisognava prendere l’iniziativa e cambiare le basi del sistema economico e politico dello Stato. Hassan II capì che era necessario aprirsi, tanto sul piano economico, quanto su quello politico. Non poteva fare altrimenti. L’alternativa era il collasso.
Per essere più prosaici, Hassan II, per pagare i suoi servizi segreti, la polizia, l’esercito e tutte le reti clientelari legate al Palazzo aveva bisogno di imprenditori che risollevassero il budget di Stato, che facessero avanzare il settore industriale e finanziario, che pagassero le tasse sulle rendite, che portassero lavoro, nuovi salari su cui addossare altre imposte, dirette e indirette. Altrimenti i costi del regime non sarebbero stati più sostenibili. Le riforme hanno interessato prima il settore economico e finanziario, con le privatizzazioni e l’apertura ai mercati stranieri e poi, debolmente, quello politico, con il primo “governo di alternanza”.
Le finanze dello Stato si sono legate al nuovo mondo degli affari che stava germogliando. Si sono appoggiate ai nuovi imprenditori e agli investitori in gran parte stranieri. I nuovi protagonisti del settore economico e finanziario, poi, hanno spinto il regime a fare i primi passi verso la democratizzazione. Soprattutto gli attori economici stranieri. Non che chiedessero vere elezioni e poteri concreti per il parlamento, ma un sistema di regole che poggiasse sul diritto, che eliminasse l’ambiguità politica e l’incertezza. Fino agli anni novanta, in Marocco, non c’era un vero sistema di tutela legale, specialmente in campo economico. Per questo motivo il regime ha avviato il cambiamento. E non è un caso se i primi giornali indipendenti a prendersi certe “libertà” sul piano politico furono i giornali economici, che rispondevano agli interessi di questo nuovo settore in cerca di garanzie e protezione. Le Journal deve molto alle evoluzioni prodottosi al tempo nel Paese. Fu quel contesto a rendere audaci e irriverenti, se così vogliamo dire, i primi giornali indipendenti, anche sul piano politico. Assicuravano un controllo. Io stesso sono stato collaboratore de La Vie Economique per un certo periodo, prima che il maggiore azionista vendesse la sua parte ad un uomo del regime ed il giornale perdesse la sua autonomia.

J. G. : Possiamo considerare Le Journal come il pioniere della stampa indipendente marocchina?

A. J. : Le Journal ha subito dimostrato che la creazione di un certo tipo di giornale, indipendente, critico, e legato non solo agli aspetti della vita economica, ma anche a quelli politici, sociali e culturali, era sostenibile sul piano commerciale. Le vendite andavano bene. La gente era interessata a questo nuovo fenomeno, trainata, certo, dai grandi discorsi sul cammino democratico intrapreso dal Paese. Facendo del giornalismo onesto, non oso dire del buon giornalismo ma almeno onesto, si potevano anche guadagnare dei soldi. E’ così che Le Journal ha segnato un nuovo cammino, ha aperto una nuova strada che è stata subito seguita da molte altre pubblicazioni. Non dico che tutto è cominciato con Le Journal. Noi stessi dobbiamo molto ad altri giornali che già esistevano da prima. Ma la nostra comparsa ha rappresentato un punto di rottura. Le decine di pubblicazioni arabofone che si trovano oggi in edicola hanno preso come modello Assahifa. Assahifa era la versione arabofona di Le Journal, faceva parte dello stesso gruppo, ed io ero il direttore.

J. G. : Nel 2000 Le Journal scompare, come pure Assahifa, e arriva in edicola Le Journal Hebdomadaire. Che cosa è successo?

A. J. : Per capire quanto successo nel 2000, bisogna prima prendere in esame il contesto e poi il fatto in sé. Il Marocco, già durante gli ultimi anni di Hassan II, aveva intrapreso un cammino di apertura. Non dico di democratizzazione, ma di piccole riforme. Lo dimostrano le nostre pubblicazioni del tempo. Abbiamo osato cose oggi impensabili. Più di una volta abbiamo messo in copertina Ben Barka, addirittura Serfaty, ben prima del suo ritorno in patria, quando ancora era proibito anche solo parlarne. Abbiamo chiesto pubblicamente il licenziamento di Driss Basri quando ancora era ben saldo nella sua poltrona di Gran vizir.  Le Journal si era dato una missione precisa: esercitare un controllo mediatico su tutte le élites che partecipano alla gestione del Paese. Le élites politiche, finanziarie e militari. Questa funzione di analisi critica era strettamente proporzionale al peso assunto dalle élites stesse.
Pensavamo che il nuovo Re proseguisse sulla strada della riforma e dell’apertura, ma ci siamo sbagliati. Nel 2000, ad un anno dall’ascesa al trono di Mohamed VI, ci siamo accorti che il monarca non aveva alcuna volontà di dare seguito alle sue promesse di democratizzazione. Non per questo abbiamo rinunciato alla nostra linea editoriale. Risultato: la morte del giornale. Ci hanno fatto chiudere i locali due volte in quell’anno. Con una circolare proveniente dal Ministero dell’Interno, dunque senza nemmeno un processo o un qualunque accertamento giudiziario. La prima volta in aprile, dopo aver pubblicato l’intervista a Mohamed Abdelazziz (capo del Fronte Polisario). In via provvisoria. La seconda il 2 dicembre. Questa volta in via definitiva. Questa data ha segnato la fine per Le Journal e Assahifa.
La verità è che sotto Hassan II non siamo mai stati censurati. La repressione si è abbattuta prima su Le Journal e poi su Le Journal Hebdomadaire solo dopo l’avvento di Mohamed VI.
                       
J. G. : Con quale pretesto, nel dicembre del 2000, vi costrinsero alla chiusura?

A. J. : Avevamo pubblicato un’inchiesta che accusava la sinistra marocchina di complicità in occasione del colpo di Stato intentato dal generale Oufkir (1972). I vertici dell’UNFP (Unione Nazionale delle Forze Popolari, da cui nacque nel 1975 l’Unione Socialista delle Forze Popolari) erano al corrente dell’iniziativa del generale e avevano garantito il loro appoggio. C’erano delle lettere, fino a quel momento tenute nascoste, che dimostravano tutto questo. Una volta arrivate in nostro possesso, abbiamo deciso di pubblicarle. A partire da allora, la complicità dell’UNFP nel golpe viene ritenuta una verità storica anche dagli accademici. E tutto questo grazie a Le Journal, che come riconoscimento ha ricevuto una condanna a morte per aver “cospirato contro la democrazia”.

J. G. : Questo accadeva mentre Youssoufi (USFP) era Primo Ministro. Era il primo governo “di alternanza”, il primo passo verso la trasformazione democratica. Niente a giovato?

A. J. : Il partito socialista era direttamente coinvolto nell’affare. Invece di difendere i diritti dei cittadini, come aveva fatto fino a quel momento, il governo Youssoufi diede vita ad una campagna di linciaggio, direi fascista, nei nostri confronti. Credo per darsi una legittimità agli occhi del nuovo Re. La monarchia non poteva che felicitarsene e dare man forte.
Dopo la chiusura di Le Journal e Assahifa, ho chiesto immediatamente l’autorizzazione per la creazione di un nuovo giornale. Senza successo. Di fronte ad un rifiuto ingiustificato ho iniziato uno sciopero della fame, che per mia fortuna è durato solo due giorni. La stampa internazionale si è mobilitata attorno al nostro caso, così come le associazioni per i diritti umani. La buona fede e le promesse di Mohamed VI iniziavano ad essere messe in dubbio, ed il regime ha dovuto concederci l’autorizzazione. Così è nato Le Journal Hebdomadaire.

J. G. : Qual è stato l’atteggiamento del regime verso Le Journal Hebdomadaire?

A. J. : La monarchia ha mantenuto la stessa ostilità dimostrata nei confronti di Le Journal. Per spiegare meglio quello che è successo dal 2000 in poi le darò delle cifre. Lei sa bene che un giornale non vive di sole vendite. La fonte primaria per la sua sopravvivenza sono gli introiti pubblicitari. Il budget pubblicitario raccolto da Le Journal Hebdomadaire è crollato dell’80% nel 2001. In un solo anno. Se oggi lei sfoglia Le Journal Hebdomadaire e Tel Quel (altro settimanale indipendente) può capire la differenza. Diciamo che alcuni sono un po’ più accettati rispetto ad altri. Società direttamente legate al Palazzo, come Royal Air Maroc o Maroc Telecom, hanno rinunciato ad inserire le loro pubblicità nel nostro giornale.
Le faccio un altro esempio. Nel 2001 sono stato condannato ad un anno di carcere, ed il giornale è stato costretto a pagare 70 mila euro di ammenda. Il 1999, l’ascesa al trono di Mohamed VI era dietro l’angolo. Il regime ha testato su di noi la nuova strategia di repressione, fin dai primi anni di pubblicazione. Una strategia che ha poi interessato Demain e Doumane di Ali Lmrabet, e in maniera più leggera Tel Quel.

J. G. : Non sapevo che fosse finito in carcere.

A. J. : No, alla fine in carcere non ci sono andato. In Marocco, salvo casi di recidività o di abuso delle leggi da parte delle autorità, la pena è a carattere sospensivo. Quando si viene condannati in primo grado, nel caso dei reati legati all’esercizio giornalistico, prima di essere condotti in carcere bisogna attendere che il giudizio sia confermato in appello. Nel mio caso la corte di appello ha concesso il beneficio della condizionale. Ma la multa è rimasta.

J. G. : A proposito di multe, dopo nove anni di attività una sentenza del tribunale vi costringe a versare 3 milioni di dirhams di risarcimento al Centro Europeo di Studi Strategici. Ancora una volta è un articolo sul Fronte Polisario a scatenare la repressione. Anche Le Journal Hebdomadaire, come già Le Journal, finirà sacrificato in nome della sicurezza dello Stato?

A. J. : Le Journal Hebdomadaire potrà sopravvivere alla multa che gli è stata inflitta. Abbiamo trovato un sistema legale che ci permetterà di dilazionare il pagamento, senza che intervenga il sequestro dei beni minacciato dall’autorità giudiziaria. Pagheremo, ma almeno continueremo a fare il nostro lavoro. D’altronde abbiamo rinunciato alla speranza di fare soldi, di guadagnare con la nostra attività. Non abbiamo più ambizioni di prosperità economica. I nostri introiti attuali ci permettono giusto di pagare i salari e i costi di stampa e distribuzione del giornale. La poca pubblicità che ci resta e gli incassi delle vendite servono a questo. Abbiamo capito che l’essenziale è permettere la sopravvivenza del nostro spirito critico. Vediamo che questo irrita il potere, quindi sappiamo di essere nella strada giusta. Se per proseguire dobbiamo rinunciare ai guadagni che un tempo, forse, sarebbero stati possibili, siamo pronti a farlo.

J. G. : Lei ha parlato di un certo clima repressivo che ha accompagnato tutti i dieci anni di regno di Mohamed VI. Ma in generale, non trova che negli ultimi mesi questa attitudine abbia subito una brusca accelerazione?

A. J. : Quello che è successo negli ultimi mesi si inscrive nella stessa dinamica di quanto già visto nei dieci anni precedenti. Dal 2000 in poi, ogni anno si sono verificati violazioni gravi della libertà di stampa in questo Paese, puntualmente segnalati da RSF. E’ una tendenza, quella repressiva, voluta da Mohamed VI e dalla sua entourage, dai vari El Himma ecc ecc. Il motivo è semplice. I media, dunque i giornali nel caso marocchino, costituiscono l’odierna agorà. Dove è possibile esprimersi, apportare critiche e sollevare dubbi. Alla fine degli anni novanta si era arrivati ad una sorta di accordo non scritto tra il regime e la società. Quest’ultima si impegnava a dimenticare le vessazioni subite durante gli anni settanta e ottanta, a voltare pagine pur continuando ad accettare la legittimità della monarchia. In cambio, il Makhzen si impegnava ad instradare il Marocco verso un sistema realmente democratico. Un processo lento, senza dubbio, ma costruito su acquisizioni progressive e concrete.
Ebbene, la monarchia non ha mantenuto la parola. Non esiste più alcun processo di apertura democratica. Negli ultimi dieci anni non c’è stata nessuna evoluzione in questo senso. La volontà di guidare il Marocco al cambiamento istituzionale è venuta meno. Mohamed VI, con le sue promesse, è riuscito ad addomesticare tutte le élites. Quelle finanziarie, risucchiate nella morsa del clientelismo, e quelle politiche. I grandi partiti, anche quelli che un tempo erano all’opposizione, sono completamente asserviti al Palazzo. Il regime non vuole rinunciare alla sua egemonia.
Solo la stampa (almeno quella definita indipendente) è rimasta fuori dal controllo monarchico. Una stampa che accusa il Re di non aver tenuto fede alle promesse fatte. E lo fa in maniera insistente. Al regime non resta che metterla a tacere al più presto. Non stiamo parlando di giornali di massa, con un vasto seguito popolare. Quindi possono essere repressi facilmente, senza che avvengano sconvolgimenti o reazioni destabilizzanti a livello sociale. Una volta apportato anche questo tassello, l’opera sarà completa.
Neanche la comunità internazionale potrà impedirglielo. Anzi, gli faciliterà il compito. Gli Stati Uniti definiscono il Marocco un pioniere della riforma nell’intero mondo arabo, il governo francese sostiene la monarchia, così come quello spagnolo. Forse Amnesty o HRW alzeranno un po’ la voce, ma le loro accuse verranno dimenticate in fretta. Quello che conta è far tacere i tre o quattro giornali che ancora osano criticare il regime. E in questo senso gli ultimi mesi rappresentano un’accelerazione spinta della politica repressiva. Il regime sa di essere vicino al traguardo.

J. G. : Quindi c’è stato un inasprimento, seppur in una tendenza già di fondo repressiva?

A. J. : Sì, assolutamente. Mettendo in prigione Chahtane (direttore di Al Michaal) e maltrattandolo in carcere, costringendo Akhbar Al Youm alla chiusura con la scusa di una banale caricatura, hanno voluto lanciare un messaggio. “Siamo noi a comandare e chi continua a metterci i bastoni fra le ruote la pagherà cara. E’ finito il tempo delle critiche e delle insubordinazioni”. A mio avviso questo denota una debolezza. Non sono sicuri della loro legittimità, sanno che il loro dominio, seppur totale, poggia su basi instabili, sull’inganno. E ogni voce fuori dal coro costituisce ai loro occhi una minaccia.
La vicenda di Akhbar Al Youm è emblematica anche sotto un altro aspetto. Fino all’attacco apportato contro il quotidiano di Bouachrine, il regime cercava di giustificare la repressione richiamandosi alle norme in vigore. La chiusura di Akhbar Al Youm, invece, è totalmente illegale. Non c’è nessuna legge, ad oggi, che la autorizzi. E il fatto che non si preoccupino più di giustificare il loro accanimento sulla base di leggi, già di per sé inique, ci fa capire che qualcosa sta cambiando. Il regime sta stringendo una morsa letale attorno ai giornali indipendenti. E’ come se dicessero: “da adesso in poi la legge siamo noi. Quello che stabiliamo, indipendentemente dai codici in vigore, è legge”.

J. G. : Come si è arrivati alla promulgazione del Codice della Stampa?

A. J. : Il Codice della Stampa è stato introdotto in seguito alla vicenda che nel 2000 ha coinvolto Le Journal e Assahifa. Fino a quel momento la libertà di espressione nel Paese era regolata da un vecchio dahir (decreto reale) del 1958. I due giornali, quando il regime li ha condannati a morte, stavano vivendo uno strano fenomeno, a tratti incomprensibile anche per noi che ci lavoravamo. Le vendite erano cresciute tantissimo, avevamo raggiunto un elettorato ampio e composito a livello sociale. C’era un grande interesse attorno ai nostri articoli e alle nostre inchieste. Evidentemente, la gente credeva nel cambiamento. Poi c’è stata la condanna. E quelle stesse persone, che ogni settimana ci leggevano, hanno iniziato a domandarsi: “ma se il Re vuole veramente la democrazia, perché ha fatto chiudere Le Journal?”. La monarchia, volendo preservare la sua immagine, si è nascosta dietro a Youssoufi e ha scaricato le sue responsabilità sul Primo ministro. Il governo, a sua volta, si è difeso dicendo di aver semplicemente seguito la legge. Così, per dimostrare la buona volontà del regime, Mohamed VI ha promesso nuove leggi più liberali. Ecco come è nato il Codice della Stampa, entrato in vigore nel 2003.

J. G. : Con il codice sono comparse anche le famose “linee rosse”?

A. J. : Sì, sono sancite dall’articolo 41. Prima non esistevano. La monarchia, con la scusa di promuovere un avanzamento in campo giuridico, ha creato una trappola mortale per chiunque voglia tentare di fare un giornalismo obiettivo e senza compromessi. E’ la loro arma fatale.

J. G. : Quali sono questi limiti da non oltrepassare?

A. J. : E qui arriviamo al nocciolo del problema. Inserire un articolo che punisce ogni offesa al Re e alla famiglia reale, ogni offesa alla religione islamica, alla forma monarchica dello Stato e all’integrità territoriale, che cosa vuol dire? Difendere i diritti di chi non crede significa attaccare l’islam? Denunciare le false promesse monarchiche significa offendere il Re? E soprattutto, chi deve stabilirlo? Dei giudici corrotti e manovrati direttamente dal monarca, che, oltre ad essere il vertice religioso dello Stato, il capo dell’esercito e del governo, è anche il presidente del consiglio superiore della magistratura.
Ed io, semplice giornalista, come posso stabilire fin dove posso arrivare con i miei articoli? Quando scrivo che il Ministro dell’Interno è corrotto, in teoria potrei apportare un attacco diretto alla monarchia, poiché è il Re a scegliere il suo vizir. Hanno lasciato campo libero all’interpretazione dei giudici, un’interpretazione che non segue alcuna logica giuridica, ma che varia a seconda dei bisogni di sua maestà e del clima politico che si respira nel Paese.

J. G. : In che modo l’articolo 41 condiziona il vostro lavoro?

A. J. :  Le Journal Hebdomadaire non accetta l’imposizione delle “linee rosse” e ancor meno l’ambiguità che le accompagna. Nel nostro lavoro abbiamo deciso di non scendere mai a compromessi. Con i nostri articoli non facciamo altro che testare, ogni settimana, i confini di queste linee. La nostra strategia è la seguente: siccome possono reprimerci a loro piacimento, siccome non ci sono vere garanzie legali, non c’è nessuna ragione di auto-censurarci. La nostra sola arma è la professionalità. Fare un buon giornale, andare fino in fondo. Se veniamo condannati per questo, ci sottomettiamo al volere di una giustizia ingiusta e corrotta, consapevoli di essere sulla buona strada. Quando Le Journal Hebdomadaire è stato portato in giudizio, non ha mai chiesto perdono al Re, non ha mai fatto appello alla sua grazia o alla sua clemenza. Cedere ad un simile ricatto e a una simile umiliazione, significherebbe tradire i principi per cui ci battiamo.

J. G. : Oltre all’articolo 41, quali altre parti del Codice giudica lesive nei confronti della libertà di stampa?

A. J. : Non ricordo gli articoli precisi, ma in generale tutta la parte che riguarda i reati di “diffamazione” deve essere assolutamente rivista. Tutti gli articoli che prevedono la detenzione per i giornalisti devono essere cancellati. Non sono degni di un Paese che ha ancora il coraggio di definirsi democratico. Corresponsabilizzare, poi, coloro che stampano e distribuiscono i giornali per quello che in essi viene pubblicato, rappresenta un altro ostacolo insidioso alla libertà di stampa. Significa assegnare a queste figure un potere discrezionale sulla linea editoriale. Se non sono d’accordo con quello che hai scritto possono rifiutarsi di distribuire il giornale o di stamparlo”.

J. G. : Mi riallaccio a questa sua ultima affermazione e arrivo all’ultima domanda. Oltre alla repressione giudiziaria, quali altri mezzi di censura sta adottando il regime per mettere a tacere la stampa indipendente?

A. J. : Prendiamoli in esame uno ad uno. C’è il sistema delle sovvenzioni di Stato, che noi a Le Journal Hebdomadaire abbiamo rifiutato fin dall’inizio. Non accettiamo alcuna forma di sostegno diretto alla nostra attività da parte delle istituzioni. Se vogliono aiutare i giornali che smettano allora di reprimerli. In più credo che il mercato debba fare il suo corso. Con il sistema delle sovvenzioni viene incoraggiata la mediocrità. Anche giornali pessimi, se vicini al regime, possono godere degli aiuti e riempire le edicole. A rimetterci è il livello medio delle pubblicazioni nel Paese, sempre più basso.
Un altro mezzo è la pressione sul mercato pubblicitario. Ne abbiamo già parlato ma voglio puntualizzare meglio il concetto. In teoria, quando si acquista uno spazio pubblicitario in un giornale, si diventa clienti di quel giornale, e non finanziatori. Quello che dovrebbe essere un ragionamento puramente commerciale per le imprese, ossia valutare se inserire pubblicità in un tale giornale possa o meno aiutare l’azienda a vendere di più, è diventato invece l’oggetto di un calcolo politico. Gli imprenditori non seguono più la logica del marketing. Se un giornale è scomodo per il regime, anche se ha molti lettori, non riuscirà mai a vendere i suoi spazi pubblicitari alle imprese che direttamente o indirettamente sono legate alle istituzioni. E il regime sfrutta quest’arma esercitando  la sua influenza in maniera sempre più marcata.
Le faccio un esempio. Il primo numero de Le Journal Hebdomadaire, nel dicembre 2000, era carico di inserzioni pubblicitarie. Dopo qualche settimana ne rimanevano meno di un quinto. Perché? I vertici dello Stato hanno detto alle società: “Non avete ancora capito? Questo giornale non ci piace, altrimenti non lo avremmo chiuso, quindi smettete di sostenerlo con i vostri soldi se non volete avere dei problemi!”. Ho ancora molti amici nel campo dell’imprenditoria e del settore finanziario. Sempre più spesso ricevo le loro telefonate in cui mi spiegano che sono costretti a ritirare la pubblicità dal giornale perché hanno subito minacce o pressioni.
In ultimo, il fenomeno più recente e più pericoloso. Gli uomini d’affari vicini al regime stanno mettendo le mani su tutte le imprese di distribuzione. Il loro obiettivo è arrivare al monopolio della distribuzione della stampa, in modo da avere la capacità di asfissiare le pubblicazioni scomode, senza l’intervento della giustizia e senza più pilotare la distribuzione degli introiti pubblicitari. Se porteranno a compimento questo piano, avranno l’ultima parola su tutto quello che viene scritto e pubblicato nel Paese. Avranno la forza di ricattare i giornali dicendo semplicemente: “o cambiate il vostro modo di fare giornalismo e rientrate nei ranghi, o noi non vi commercializziamo, così non avrete né vendite né pubblicità”. Sarà la fine della stampa indipendente.

Casablanca, 17 novembre 2009.

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