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sabato 10 ottobre 2009

TUNISIA. Se in vacanza ci va la democrazia

TUNISI – Allontanandosi di qualche passo da place Pasteur in direzione nord si nota subito una strana struttura. Bassa e compatta. All’apparenza si direbbe un garage, ma sul tetto troneggia una antenna minacciosa. E’ la base operativa dell’Agence Tunisienne d’Internet. Un bunker impenetrabile. Da questo centro, a pochi passi dalla residenza dell’Ambasciatore italiano, il regime di Ben Ali controlla e gestisce tutte le connessioni in rete effettuate nel Paese.




E’ da qui che oscura i siti web che denunciano gli abusi e le violazioni perpetrate dalla dittatura. Perfino le mail vengono filtrate. Gli appelli di Amnesty International, Human Rights Watch e Reporters Sans Frontières cadono nel vuoto. Le loro pagine web non sono accessibili. Anche YouTube ha subito la stessa sorte nel giugno 2008, dopo la diffusione di alcuni filmati che mostravano le immagini della rivolta degli abitanti di Redeyef, il bacino minerario da cui si estrae la maggior parte del fosfato tunisino, nella regione di Gafsa. Scioperi e manifestazioni soffocate nel sangue (4 morti), sindacalisti arrestati e giornalisti allontanati a botte e intimidazioni, mentre a pochi chilometri centinaia di turisti continuavano a godersi la calma di Tamerza e Chebika, o passeggiavano entusiasti sotto i palmeti di Tozeur. “Il movimento sociale più forte e maturo della recente storia della Tunisia” l’ha definito Le Monde Diplomatique. Ma nel nostro Paese nulla o quasi si è detto in proposito. Solo Gabriele Del Grande ha avuto il coraggio di raggiungere Redeyef e di raccontare la violenza della repressione, rischiando di essere intercettato dalle forze di sicurezza tunisine.

I milioni di visitatori che si recano ogni anno in Tunisia continuano a descrivere questa terra come un paradiso turistico e non riescono ad aprire gli occhi su quello che c’è dietro le spiagge bianche di Hammamet, Susse e Monastir. Non sanno che nelle vicinanze di Gerba si è consumata per oltre un decennio une delle tragedie più nere della storia del Mediterraneo. Per anni il mare ha continuato a restituire i corpi di giovani naufraghi, trasportati dalle correnti fino alle rive del golfo di Gabes. La maggior parte era partita dalle spiagge di La Chebba e Chaffar, nel tratto di costa che va da Mahdia a Sfax. Quello più vicino all’isola di Lampedusa.
Sotto questo aspetto il 2003 è stato un anno di svolta. Dopo il Trattato di Amicizia, Buon Vicinato e Cooperazione siglato dai governi di Roma e Tunisi, il flusso migratorio si è spostato oltre il confine libico. Con il Trattato sono iniziati gli accordi in materia di sicurezza e controllo delle frontiere. A Ben Ali il compito di fare il lavoro sporco in cambio dei soldi e della riconoscenza dell’intera Europa. I riflessi nel Paese sono preoccupanti. Il denaro della cooperazione italiana ha permesso la creazione di 13 centri di detenzione e espulsione. Nel mirino i potenziali harraga. Le nuove leggi di contrasto all’emigrazione clandestina puniscono con tre anni di carcere chi ha ancora il coraggio di sfidare le acque del Canale di Sicilia. Ma i tunisini continuano a “bruciare la frontiera”. In Italia ne arrivano illegalmente quasi duemila ogni anno, i più passando dalla Libia. Rischiano molto, tutto. Oltre al pericolo di essere intercettati c’è la violenza del mare. Cosa li spinge ancora a partire?

La risposta me l’ha data Tunisi stessa. O meglio la diseguaglianza che nasconde. Per capire in profondità le dinamiche sociali di questo Paese non basta prendere in considerazione i dati macroeconomici, senz’altro positivi, che ne fanno uno tra gli Stati più floridi dell’area. Dietro alle banche e agli alberghi di lusso eretti in bella mostra tra avenue Burghiba e boulevard Mohamed V ci sono le grida di miseria che si alzano dalle baracche di Hay El Akrad, appena fuori città. Cumuli di lamiera appoggiati su qualche mattone, sprovvisti di luce e acqua corrente. Lontano dallo sguardo dei turisti.
Ma il dato più allarmante resta l’impoverimento progressivo della classe media, fiore all’occhiello del modello economico tunisino. La base sociale su cui Zine Eddine Ben Ali ha fondato il suo potere. E’ la classe media infatti a pagare il prezzo della svolta liberista impressa al Paese nei primi anni novanta: l’eredità socialista lasciata da Burghiba ha ceduto il passo alle privatizzazioni e all’apertura dei mercati. Lo Stato ha continuato a gestire l’iniziativa economica, imprigionando tanto il settore pubblico quanto quello privato in una morsa di clientelismo e corruzione, di cui gli unici beneficiari sono rimaste le famiglie vicine all’entourage presidenziale. Il resto lo stanno facendo le imprese straniere, sempre più numerose, attratte dalle agevolazioni fiscali concesse dal regime. Controlli scarsi e niente tasse per le industrie che delocalizzano. E a farne le spese sono i lavoratori. Senza alcuna tutela sindacale si ritrovano alla mercé di strategie economiche che nulla hanno a che vedere con la promozione dello sviluppo locale. Contratti flessibili e malpagati, stipendi che raramente arrivano a 225 dinari al mese (120 euro), la soglia fissata dallo SMIG (salario minimo garantito). Tutto questo mentre le industrie nazionali non resistono alla concorrenza straniera, chiudono i battenti e mandano i loro dipendenti ad ingrossare le fila dei disoccupati.
Qualche giorno fa, mentre girovagavo tra i vicoli di Bab Saadoun, il quartiere dove vivo, ho conosciuto Othman. Lavora nella fabbrica di scarpe di un italiano. Guadagna 150 dinari al mese, pochi per provvedere all’intera famiglia, così di sera fa il tassista abusivo a La Goulette. Parcheggia la Palio del fratello di fronte al porto e aspetta i turisti che scendono dalle navi. Sono in molti nella sua stessa situazione, ad arrangiarsi con gli stessi espedienti.
Le cifre ufficiali fornite dal governo parlano di un tasso di disoccupazione attorno al 14%, ma studi più credibili, come quelli della ricercatrice Beatrice Hibou, rivelano che la percentuale dei senza lavoro è almeno il doppio di quella dichiarata. I più coinvolti sono i giovani tra i venti e i trent’anni, in gran parte diplomati e laureati. Il Paese è in piena “sindrome marocchina”. Il mercato nero e il contrabbando spesso sono le uniche attività che consentono di tirare avanti. Servono ad allentare una pressione sociale altrimenti incontrollabile. Il regime lo sa bene. Le tollera e in questo modo aumenta la sua capacità di controllo sulla popolazione, alimentando un sottile gioco di scambio: da una parte permette il mantenimento dell’economia sommersa, vitale per una larga fetta della società tunisina, dall’altra si assicura l’appoggio di tutti coloro che sono coinvolti nel settore.
Questo serve almeno in parte a spiegare come mai il regime dimostri ancora una stabilità interna. Ma come giustificare il fatto che la comunità internazionale continui ad elogiare il modello economico tunisino, ignorando la deriva autoritaria di Ben Ali e tacendo sulle continue violazioni dei diritti umani? Una risposta c’è. Cinica, come la logica di mercato che regge l’impianto del capitalismo globale. La stabilità assicurata da questo tipo di controllo e di regime permette affari d’oro alle multinazionali e alle aziende straniere che delocalizzano. Una tale stabilità non può essere messa in discussione.
L’Unione Europea, la Banca Mondiale e le altre istituzioni internazionali si accontentano della veste democratica assicurata, almeno sulla carta, dalla presenza di un Parlamento, di elezioni periodiche e di un’opposizione. In realtà il Rassemblement Constitutionnel Democratique monopolizza l’intero panorama politico, la stampa è imbavagliata e le associazioni che si battono per il rispetto dei diritti umani, civili e politici vengono sistematicamente represse.
La Tunisia è uno Stato di polizia. E l’Italia è tra i suoi partners privilegiati. Tra gli amici più fedeli, come dimostra la lunga serie di accordi conclusi dal 1987 ad oggi. Il 7 novembre di quell’anno Ben Ali salì al potere con un colpo di Stato incruento. Fu l’Italia a volere quel golpe. Furono i servizi segreti italiani a vedere nel generale Ben Ali l’uomo capace di garantire, meglio di Burghiba, la stabilità di un Paese scosso dalle agitazioni popolari e dalla contestazione islamica. In gioco c’erano gli interessi italiani e algerini, minacciati da una Tunisia insicura e turbolenta. Fatalità, la cooperazione economica bilaterale tra Roma e Tunisi iniziò appena un anno dopo, nel 1988. In vent’anni il nostro Paese ha versato nelle case del regime centinaia di milioni di euro, foraggiando una dittatura corrotta e prona agli interessi dei nuovi alleati commerciali.

Sotto un sole ancora estivo mi ritrovo a passeggiare tra le rovine di Cartagine. Quella romana, visto che della Cartagine punica è rimasto ben poco dopo la vittoria di Scipione a Zama. Sulla sommità della collina che getta le sue pendici nel sito archeologico si intravede il palazzo del Presidente. A proteggerne l’accesso guardie schierate in ogni anfratto, armate di mitra e pronte a fare fuoco al minimo segno di pericolo. Il livello di allerta è sempre alto e in questo periodo più che mai. Si avvicina il momento della quinta rielezione e nulla deve turbare i festeggiamenti per il ventiduesimo anno di regno dell’era Ben Ali. Il Paese si prepara ad un trionfo annunciato. I partiti di opposizione sono pronti a fare da contorno. Niente più di un elegante decoro democratico. Mentre le voci di dissenso vengono soffocate non resta la minima illusione sulla regolarità delle elezioni presidenziali in programma per il prossimo ottobre. Una farsa. Come le quattro precedenti.
Ahmed Brahim, segretario di Ettajdid (il vecchio partito comunista tunisino), l’ha definita “una campagna elettorale unilaterale”. Un dispiegamento di forze che da quasi un anno mobilita tutti i mezzi a disposizione dello Stato, tiene sotto controllo i media e confisca tutti gli spazi pubblici a vantaggio di un solo candidato e un solo partito. Intanto le maglie del regime si stringono sempre di più. Per Rachid Kherchana, caporedattore del quotidiano Al-Maukif, “anche il meteo è considerata una linea rossa da non oltrepassare, vista l’importanza del turismo nel Paese”. Nessuna ironia nelle sue parole. Il 15 agosto il governo ha assunto direttamente il controllo del Sindacato Nazionale dei Giornalisti Tunisini durante un congresso straordinario, piazzando uomini di fiducia alla testa dell’ufficio esecutivo, fino a quel momento guidato da una maggioranza indipendente. Nella notte tra il 3 ed il 4 settembre i blog di Mokhtar Yahiaoui, attivista per i diritti umani, e Monef Marzouki, ex magistrato e oppositore politico, sono stati piratati. Il 15 settembre il giornalista Abdallah Zouari è stato arrestato per aver rilasciato dichiarazioni “lesive all’immagine del Paese”. Questi i colpi messi a segno dal regime solo nelle ultime settimane. Ma non c’è da stupirsi. Prima del 25 ottobre ce ne saranno degli altri.

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