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martedì 13 ottobre 2009

La folle pazienza dei cercatori d'oro

Vi propongo la traduzione del primo capitolo di Clandestin en Mediterranée, scritto dal giornalista tunisino Fawzi Mellah e pubblicato dalla casa editrice Le Cherche Midi nel 2000. L'autore ha deciso di sperimentare in prima persona il passaggio clandestino dalle sponde tunisine alle coste europee, riportando sotto la forma di un libro-reportage la sua esperienza diretta.



Le facce sono tutte rivolte alle persiane del Console, come ciotole protese verso una mano troppo avara. Queste facce sono riuscite a togliermi la voglia di viaggiare. Ma non rinuncio lo stesso. Prendo il mio posto in fondo alla fila e, dopo aver verificato con uno sguardo veloce la completezza del mio dossier, cerco di darmi un contegno sfoggiando un sorriso speciale. Un sorriso ben noto a tutti coloro che il destino ha messo su una qualunque lista d’attesa.

Siamo più o meno un centinaio, uomini e donne, a battere i piedi di primo mattino davanti alle grate del Consolato. Seri e risoluti, tenendo ben stretti nostri passaporti, cerchiamo di scacciare i residui di un sonno che minaccia di intorpidirci e gli sbadigli di noia che rischiano di scoraggiarci. Ci esercitiamo reciprocamente ad eludere i trabocchetti tesi abitualmente da funzionari reticenti.
A dispetto dell’orario affisso in caratteri d’oro, gli impiegati tardano a raggiungere i loro posti di lavoro. Prudenti, non abbiamo la minima intenzione di rimproverarglielo. Bisogna aspettare, e aspettiamo. Senza segnali di nervosismo, né di astio inutile. L’entusiasmo ci conduce già altrove, ci porta verso un orizzonte fatto di desideri e speranze. E’ un semplice visto a tenerci ancora lontani. Come cercatori d’oro sicuri di noi e del nostro filone, indifferenti alla stanchezza e al tempo, ci sembra normale pagare con questa pazienza un futuro voluttuoso. Cosa importano queste ore di attesa fastidiosa o gli sguardi beffardi dei passanti?
La folla cresce ed io mi ritrovo nell’atrio d’ingresso. Una posizione vantaggiosa, inespugnabile! Non devo né spingere né tendere il collo. E’ sufficiente appoggiarsi ai battenti del portone, lasciarsi trasportare dal movimento continuo delle persone alle mie spalle, scivolare su quest’onda anonima fino allo sportello tanto agognato. Ma questo genere di privilegi ha un prezzo. Bisogna rispondere alle domande di chi sta dietro, fornire spiegazioni che non si conoscono, prestare la penna al vicino, completare formulari e tradurre disposizioni incomprensibili. Riesco così ad osservare fino a che punto i miei compagni sono pronti e preparati a districarsi in mezzo alla giungla spietata di direttive e regolamenti che ci attende. Non c’è astuzia burocratica che non abbiano già previsto. Non c’è barriera in cui non sappiano trovare la faglia. La Francia si barrica? Bell’affare! Passeremo per l’Italia. L’Italia non ci vuole? Non servirà a niente! Andremo in Germania. La Germania espelle gli immigrati? Allora ci rifugeremo in Olanda. Insomma, al contrario dei viaggiatori ordinari, i miei compagni non sembrano avere una destinazione precisa. Si preparano a vagabondare armati di speranza.
Gli sportelli si aprono e d’improvviso la calma si trasforma in caos. Il caos in bagarre. Bisogna avanzare decisi, difendere la propria posizione, sgomitare e azzuffarsi se necessario. Nel mio caso un dispendio di energia inutile. Raggiunto lo sportello, infatti, ricevo solo improperi, lanciati selvaggiamente da una fiamminga arcigna. La mia domanda di visto è ingiustificata, poiché ho già beneficiato l’anno passato di un’autorizzazione simile. Né l’invito del mio anfitrione belga, né il mio passaporto valido, né le garanzie finanziarie che esibisco, con una certa fierezza, servono ad addolcirla. La imploro, cerco di contrattare, mi arrabbio, poi torno ad implorarla; non serve a niente! Risponde alle mie suppliche con monosillabi infastiditi. L’unica cosa che capisco è che l’Europa di Shengen non ne vuole più sapere di me.
Insistere? Ricominciare da capo tutta la fila? E per che cosa? La fiamminga è così sicura delle istruzioni ricevute da Bruxelles. Sperare di abbattere questo muro di diffidenza e di burocrazia assurda mi sembra fin troppo vano. Lascio la funzionaria al gergo indigesto dei formulari e i miei compagni alla folle pazienza dei cercatori d’oro… Ma non mi sento sconfitto, non ancora!
Getto lo sguardo sulla strada e vedo un gruppetto di persone che confabula con aria cospiratrice. Sono stati rifiutati, come me, ma non si arrendono e cercano altre soluzioni per aggirare l’ostacolo, per aprirsi ad ogni costo un varco verso l’Europa. Sono colpito da questa nuova razza di migranti. Sbalordito dalla loro energia e dalla loro capacità di districarsi in qualunque situazione. Voglio saperne un po’ di più.
Una breve conversazione in un angolo del marciapiede mi è sufficiente per abbozzare qualche ritratto. Sono giovani, dai 20 ai 25 anni, ed hanno un buon livello di istruzione. Nella maggior parte dei casi vivono in città ed hanno già avuto esperienze professionali.
Non fanno grande mistero dei loro progetti, così cerco di punzecchiarli, vestendo i panni del guastafeste. “Sapete cosa lasciate” - gli dico con tono provocante – “ma sapete veramente quello che troverete? Ve lo dico io, la stessa situazione”. Poi ancora: “Non credete che la vostra vita possa essere qui?”. “Un susseguirsi di giorni miserevoli non è una vita”, mi ribatte un roscio dalla statura gigantesca. “E l’Europa, come ve la immaginate?”. Dal brusio entusiasta che ottengo come risposta capisco che per questa gente l’Europa evoca la meraviglia dei sogni, più che la geografia dei continenti. E’ un po’ come la Terra Promessa per Mosè o le Indie per Cristoforo Colombo. “E le frontiere? Avete pensato alle frontiere?”. “Le frontiere sono ostacoli per benestanti, ma per noi non sono altro che ulteriori stimoli al viaggio”, esclama deciso il roscio, facendo capire chiaramente che non ha gran ché da perdere. “E il mare allora? Bisognerà pur attraversare il Mediterraneo per arrivare all’altra sponda?”. Un ragazzo dagli occhi ridenti mi riassume in un’immagine l’avviso generale in proposito: “Il Mediterraneo è una vecchia puttana, talvolta indomabile, ma basta saperla saltare!”.
In questa replica percepisco un vigore così forte che mi sento incapace di criticare il tenore dei sogni da cui sono animati questi uomini. Al contrario, vedendo l’impeto con cui si apprestano a giocare le poche carte a disposizione, finisco per domandarmi in cosa il loro sogno sia meno nobile di quello degli Ebrei che attraversarono il Mar Rosso o di quello degli Spagnoli in vela sull’Atlantico. Dopo tutto, mi dico, anche queste persone, come gli avventurieri mitici di un tempo, sono pronte a rischiare i loro corpi e le loro anime per dar vita a un sogno. Anche loro sono mossi da quella caparbietà che serve a costruire nuovi mondi.
Chi sono dunque questi migranti contro cui l’Europa alza le sue barriere? Cosa li spinge ad affrontare i pericoli del mare e gli ostacoli alle frontiere? Quali sogni e quali illusioni si portano con loro? Come diventano improvvisamente clandestini, illegali, sans-papiers? Per poter avere una risposta non ho altra scelta che condividere la loro galère.

Così nel marzo del ’97 decido di trasformare il fallimento al Consolato belga in un reportage. Una rivista svizzera ed un quotidiano tunisino accettano di pubblicare l’inchiesta ed io sono pronto a scivolare nei panni di un clandestino. Tenterò la mia chanche nel Mediterraneo. Senza visto, senza permesso di viaggio, con un po’ di soldi in tasca e qualche raccomandazione, mi metto alla ricerca di un contatto. Più facile a dire che a farsi! Non basta aver voglia di partire, bisogna rispettare determinate condizioni e osservare una giungla di regole non scritte.
Per prima cosa bisogna essere giovani e godere di ottima salute. Una volta superata la frontiera c’è da camminare, talvolta anche da correre, e spesso si finisce senza fiato. Questo spiega perché l’età media dei clandestini sia così bassa. E’ una sorta di selezione naturale che gioca in favore dell’Europa. Il vecchio continente si ritrova ad assorbire una popolazione giovane e in buona salute.
In più bisogna saper nuotare. Eh sì! Per attraversare il mare su piccole barche rattoppate, spesso in balia di forti marosi, bisogna almeno essere in grado di restare a galla. Le imbarcazioni raramente sono provviste di giubbotti di salvataggio. E non è un caso se la maggior parte dei racconti in materia parla di naufragi, annegamenti e perdite d’uomini in mare aperto.
Bisogna poi avere a disposizione una bella somma di denaro. Il passaggio dalle coste maghrebine verso la Spagna o l’Italia può costare fino a cinque volte il prezzo di un biglietto d’aereo. Senza contare le spese per muoversi una volta in territorio europeo. Servono tanti soldi per affrontare questo tipo di avventura. A conti fatti, dalle coste tunisine fino alla frontiera francese ho speso l’equivalente di due o tre vacanze con il Club Med in Martinica. Quanto ai miei compagni, in diversi si sono indebitati pesantemente o hanno fatto ricorso alle famiglie per potersi pagare la traversata.
La conoscenza delle lingue europee è un altro dei requisiti richiesti. A seconda del caso e della convenienza, i trafficanti possono decidere di abbandonare il carico umano tanto in Francia, quanto in Italia o in Spagna. Bisogna essere pronti a cavarsela in ogni circostanza. Durante la mia esperienza ho incontrato molti clandestini capaci di districarsi bene in italiano, in tedesco e in spagnolo, oltre che in francese. Al contrario degli stereotipi che circolano, questi migranti, dipinti sovente come dei diavoli o dei banditi, nella maggior parte dei casi sembrano essere persone curiose e ben informate.
Per ultimo non resta che individuare una rete di passeurs e, una volta trovata, riuscire a guadagnarsi la fiducia del capo. E’ lui che decide chi può passare e chi no. Secondo quali criteri? Nel mio caso ne ha applicati quattro: il denaro in divisa forte che si è disposti a sborsare; la motivazione alla base del viaggio; buone condizioni fisiche; la simpatia ispirata. Insomma non è poi così diverso dal Consolato, burocrazia a parte.

Dopo un mese di ricerche riesco finalmente a scovare una rete affidabile. Al momento del primo incontro, in un bar, il contatto mi scambia per un pazzo esaltato. O peggio per un poliziotto infiltrato. Pessimo inizio. Il mio aspetto non assomiglia minimamente a quello dei suoi clienti abituali. Non mi promette niente e ci lasciamo senza una decisione definitiva. Una buona decina di telefonate e qualche intervento da parte di amici influenti riescono a procurarmi un nuovo rendez-vous e la mia domanda viene presa in considerazione.
Dopo una settimana ottengo un incontro con il capo. Ha più l’aria dell’assistente sociale che del trafficante di clandestini. E’ grassottello, gentile e ben informato sulla durezza della vita. Siamo cinque candidati. Ci raduniamo attorno a lui, in un bar non troppo lontano dall’approdo dove tiene ormeggiata la sua barca. Fin dalle prime parole ci confessa che le cose non saranno così facili come crediamo. Per convincerci enumera le difficoltà a cui stiamo per andare in contro: il mare è pericoloso; i guardia-costa tunisini sono spietati; quelli di fronte sono ancora più feroci; lui stesso non può garantire nessun risultato; sulla sua barca non vuole muli, né pregiudicati, né contrabbandieri.
Dopo aver analizzato le condizioni e i pericoli della traversata, passa ai dettagli pratici: niente valige, solo un piccolo zaino, del cibo e molta acqua. “E per i passaporti?”, farfuglia un candidato. “Dovete decidere voi se prenderli o lasciarli qui”, risponde il passeur in tono conciliante. Poi ci spiega il suo punto di vista: “personalmente vi consiglio di averli con voi, ma senza mai tirarli fuori. Se vi accorgete che le cose si mettono male nascondete i documenti e dite di averli persi. Nessun poliziotto potrà costringervi a rivelare la vostra vera identità”.
“Questi sono i pericoli – mormora un altro – “ma quanto ai rischi legali che corriamo?”. A questo punto il passeur assume un tono notarile e ci fa il punto della giurisprudenza in materia. Se i guardia-costa tunisini ci trovano i nostri passaporti saranno confiscati, saremo colti in flagrante delitto, un tribunale ci condannerà a qualche mese di prigione per attraversamento illegale delle frontiere e verremo schedati dalla polizia. In più lui rischierebbe il sequestro della barca e una multa salata. Se invece cadiamo nelle mani della polizia di frontiera italiana, saremo detenuti per qualche ora, dopodiché avremo due settimane di tempo per lasciare il Paese.
Che siano minacce al vento? Tentativi di giustificare l’alto prezzo richiesto per la traversata? Come saperlo senza provare di persona le difficoltà dell’impresa?
Arriva il momento di discutere i motivi della partenza e la tariffa. Il capitano preferisce prenderci uno per uno in disparte. I miei argomenti non gli sembrano molto convincenti (gli racconto fedelmente la mia disavventura al Consolato belga). Mi crede a metà. Ci pensa un po’ su e poi, senz’altro impressionato dal numero e dalla qualità delle mie raccomandazioni, finisce per cedere. La tariffa è 8 mila franchi. Non ci sto e cerco di trattare; la negoziazione è lunga, alla fine ci mettiamo d’accordo per 5 mila. E’ ancora troppo, ma non ho altra scelta se voglio imbarcarmi in quest’impresa. Pago. Con un supplemento di 2 mila franchi mi dà le coordinate di un contatto che potrebbe aiutarmi a trovare un alloggio e un lavoro una volta a terra. In un foglio vago mi scrive il nome di una persona vaga che dovrei incontrare in un vago bar siciliano. Esigere più garanzie? Ma andiamo! Si può essere di palato fino mentre ci si prepara a scivolare nell’illegalità? In ogni caso sono deciso a percorrere il cammino fino in fondo, alle stesse condizioni degli altri.
La partenza è fissata per l’indomani, verso le nove di sera, a qualche passo dal luogo del primo incontro, vicino al molo.

Metto qualche vestito nello zaino, proteggo il passaporto con un sacchetto di plastica e porto con me un giubbotto di salvataggio. Decido di prendere qualche precauzione. Metto al corrente delle mie intenzioni un giornalista di Ginevra, un amico a Parigi e un avvocato tunisino.
“Ha preso veramente tutte le misure necessarie prima di affrontare questa pazzia?”, mi domanda l’uomo di legge in un ultimo sussulto di inquietudine. “Sì, credo di sì..”. “Io non credo proprio!” - ribatte lui – “ha l’aria di considerare questa traversata come una semplice crociera, ma si sbaglia!”. Poi di seguito: “non per spaventarla, ma le ricordo che i cadaveri restituitici dal mare ogni anno sono fin troppi. Se non ci pensa il mare, spesso è la marina italiana a gettarne più della metà in acqua. Senza contare l’incoscienza dei trafficanti, che non esitano un secondo a sbarazzarsi del loro carico umano al semplice comparire di una minaccia. Mi creda, al suo posto io lascerei perdere questo reportage e mi accontenterei di un saggio sul fallimento della cooperazione occidentale nel nostro Paese”. “Ma questi figli della miseria non sono altro che la prova irrefutabile del fallimento di cui parla”, gli rispondo per dar maggior forza, almeno ai miei occhi, alla pertinenza del progetto. Non potrei scrivere una sola riga su queste persone senza condividere con loro certi rischi.
Scoraggiato da tanta ostinazione, prova allora a dirmi la sua su quelli che io chiamo compagni. “Se crede che questi clandestini siano gente per bene si sbaglia di grosso ancora una volta! Droga, prostituzione, delinquenza, ignoranza… ecco cosa l’aspetta. Niente a che vedere con le generazioni precedenti”.
Conosco bene i discorsi dei miei compatrioti a proposito dei migranti. Sono gli stessi che si fanno nell’altra sponda. I ricchi di qui non si accontentano di riprodurre lo stesso stile di vita della buona società occidentale, ne adottano anche i pregiudizi. Lascio il mio avvocato alle sue inquietudini e filo via, in contro al mio miraggio.

Arrivo per ultimo e mi rendo conto che diversi dei compagni conosciuti ieri non sono presenti. Forse il prezzo è troppo alto o forse non sono riusciti a convincere il passeur. Scorgo facce nuove ad attendermi. Siamo in sei a scalpitare vicino alla barca. Sei volontari pronti a partire, ciascuno alla ricerca della propria “isola del tesoro”. Nessuna presentazione. Nessun nome proprio. Solo sorrisi di circostanza, rigidi e ansiosi. Il capo è accompagnato da una sorta di assistente, burbero e collerico. Otto anime stanno per salpare su questa vecchia imbarcazione, lunga non più di nove metri, larga e piatta. Di sicuro un tempo una barca di pescatori. Non c’è cabina, nessun giubbotto di salvataggio, solo una panca sistemata alla buona e un piccolo motore a poppa.
La notte sta calando. Ci imbarchiamo barcollando in un guazzabuglio di oggetti invisibili. Ci stringiamo gli uni contro gli altri e appoggiamo la testa sugli zaini. Il capitano imbraccia la barra del motore.
Da lontano dei contadini ci guardano con quell’aria un po’ scettica e allo stesso tempo caritatevole, di cui fanno solitamente dono ai marinai. Dei pescatori, almeno dall’odore, ci passano accanto rivolgendoci un saluto carico di complicità. Non ci passa neanche per la testa di rispondergli. Gli ordini sono chiari, bisogna rimanere in silenzio.
Dopo la partenza il capitano ci dà le ultime raccomandazioni e ci spiega in modo sommario la procedura di sbarco. Al suo segnale, non appena la barca si avvicinerà ad una caletta, dovremo scendere velocemente, aiutandoci l’uno con l’altro e facendo attenzione alle rocce. Toccato terra, non ci resterà che disperderci il più in fretta possibile, incamminandoci verso la città. “Lasciate un po’ d’acqua per lavarvi, quando arrivate”, aggiunge il passeur. “Ma dov’è che andiamo esattamente?”, mi azzardo a chiedere. “In Italia, perdio!”, mi risponde pronto un vicino. “L’Italia è grande, voglio sapere dove sbarcheremo esattamente”. “Di certo non ti porterò fino a Milano” - replica il capitano – “arriveremo a Pantelleria”. “E quanto tempo ci vuole?”. Non ascolta nemmeno la mia domanda. Fa un nodo attorno alla barra, si sistema un thermos in mezzo alle gambe e farfuglia Dio sa quale istruzione al suo assistente. Poi si rivolge di nuovo a noi, quasi coccolandoci: “Copritevi bene e dormite, non c’è più niente da vedere”.
E’ quando non c’è più niente da vedere che le cose si fanno interessanti, diceva non so più quale viaggiatore. L’immaginazione è libera di dare forma a tutto ciò che gli occhi non vedono. Mentre le luci della costa illuminano ancora l’equipaggio, cerco di fissare in mente le facce dei miei accoliti, prima di prendere il largo. Quanti anni hanno? Non so, forse tra i venticinque e i trenta. Quale origine? Direi cinque maghrebini e un sub-sahariano. E’ tutto quello che posso indovinare. Sufficiente per viaggiare assieme, troppo poco per condividere un inferno. Meglio provare, quindi, a scambiare qualche parola prima che il sonno ci risucchi. Tra un mormorio e un sorriso riesco a scoprire che l’uomo alla mia destra è algerino. L’africano viene dal Mali, poi c’è un libico, ancora un algerino, e un confratello tunisino.
“Silenzio!” - mormora infastidito l’assistente – “in nome di Dio volete che ci trovino prima di aver lasciato la baia? Adesso state zitti e dormite, ve l’abbiamo detto, non c’è più niente da vedere”. Eccetto il porto che si allontana, due barche di pescatori al rientro dopo una giornata di mare, e i riverberi della costa ormai distante, effettivamente, non c’è più nulla da vedere. Soltanto il nero profondo del Mediterraneo continua a catturare la mia attenzione.
Poco a poco anche le pallide luci della costa sfumano completamente. La linea azzurrognola delle colline si trasforma in un disegno astratto e poi scompare del tutto. No, non c’è più niente da vedere, ma questo non basta per addormentarsi.

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